Premio Letterario 2000-2001-2002

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Anno 2000

La Calabria e il Mediterraneo – il Mediterraneo e la Calabria

Dialettiche antiche e nuove: la Calabria e il Mediterraneo

Dopo i numerosi studi centrati sul territorio e sugli uomini della Calabria, che hanno contraddistinto le brochures di alcuni anni scorsi, gli scritti che seguono prendono in considerazione questa terra come centro di intricate dialettiche di respiro mediterraneo che scaturiscono dal passato, anche remoto, per riallacciarsi, a volte inaspettatamente, al presente.

Apre questa breve serie di contributi Michele Brondino, direttore dell’Enciclopedia del Mediterraneo, un tempo direttore dell’Istituto Italiano di cultura di Tunisi. Il suo intervento, incentrato sul Dialogo interculturale nel Mediterraneo, apre gli scenari più ampi per una analisi interdisciplinare e una riconsiderazione socio–politica dello spazio mediterraneo come spazio di interrelazioni volute o forzate tra “vicini di casa”. Uno spazio in cui la Calabria, insieme a tutte le regioni meridionali d’Italia, è tenuta a svolgere un ruolo di “cerniera tra civiltà”.

L’intervento di Yvonne Fracassetti Brondino, anche lei legata ad una pluriennale esperienza di vita culturale e diplomatica in Nordafrica, si lega al discorso di Brondino dal punto di vista squisitamente artistico. Nel panorama tanto ricco quanto poco conosciuto della produzione letteraria italiana nell’Africa mediterranea, l’autrice traccia in poche righe l’intensa e sentita interculturalità della “Piccola Sicilia” di un Cesare Luccio e della “Piccola Calabria” di un Niccolò Converti. Emigrazione, integrazione e multiculturalità: esempi del passato di straordinaria attualità.

E di un viaggio secolare da “emigrazione forzata” a “emigrazione voluta” della gente di Calabria tratta il breve contributo di Salvatore Speziale. Tanti anni di ricerca dedicati alle relazioni tra l’Europa mediterranea e il Maghreb viaggiando da una sponda all’altra del nostro grande lago. Dapprima, una storia ricca di pathos narra le vicende che legano i calabresi alla guerra dei corsari maghrebini come vittime e come artefici. Poi, quando gli equilibri mediterranei mutano, si racconta l’emigrazione verso la sponda sud del Mediterraneo vista dagli stessi calabresi come una vera e propria fonte di salvezza. Una fonte che viene spietatamente negata durante e dopo il secondo grande conflitto. La “Piccola Calabria” che muore insieme alla “Piccola Italia” dell’altra sponda.

Ma anche dall’altra parte del mare le trasformazioni si fanno sentire. Come i calabresi, gli italiani e gli europei, prima schiavi e corsari poi emigrati, giungevano in terra africana, così gli africani – ma anche gli asiatici – prima schiavi e corsari, adesso giungono in Calabria, in Italia e in Europa come emigrati. A questo tema di scottante attualità, le comunità musulmane in Calabria, è dedicato il contributo di Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Pavia. Delle microrealtà che molti ignorano ma che si stanno evolvendo a vista d’occhio attorno a noi e in mezzo a noi. Comunità anche numerose che si integrano nel tessuto sociale, che accolgono nuovi adepti, che fanno da tramite tra il paese ricevente e quello di partenza.

Il breve saggio di Daniel Panzac, professore emerito dell’Università della Provenza, si colloca al posto giusto per spiegarci in poche righe il confronto plurisecolare tra i paesi barbareschi e l’Europa mediterranea. Al centro dell’analisi c’è un mondo in trasformazione. Le potenze corsare per secoli terrorizzano i cristiani del Mediterraneo e in particolare quelli più vicini alle basi di partenza: siciliani, calabresi e sardi. Ad un certo punto, favoriti dalla congiuntura politica, provano la carta del commercio internazionale. La fine delle guerre napoleoniche e la ripresa delle potenze europee rende vano lo sforzo e spinge le reggenze barbaresche ad un ultimo sussulto di corsa. Torna il pericolo che viene dal mare. Ma solo per poco. Gli equilibri tra le due sponde sono definitivamente mutati. E muteranno ancora.

E alla paura del mare, alla paura del nemico che viene dall’orizzonte è dedicato il contributo di Vincenzo Naymo, studioso dell’Università di Messina da anni attento alla storia della Calabria ed ai suoi molteplici rapporti con il mondo circostante. Grazie alla documentazione manoscritta ritrovata dipinge una società calabrese in Età moderna che, nonostante i palesi benefici ottenibili, fugge via dal mare e si ritrae all’interno del suo territorio arroccandosi in aree impervie e difficilmente raggiungibili dai corsari. La Calabria diventa così «una terra di mare con un mare ingombrante». Paradosso che ancora oggi, a distanza di secoli, si rivela nella sua interezza.

Questo difficile o meglio duplice rapporto con il mare, che si trasforma solo in parte negli ultimi secoli, è proprio un elemento distintivo della Calabria secondo Giuseppe Restifo, docente di Storia moderna dell’Università di Messina. E’ un elemento che la differenzia da altre regioni vicine ed allo stesso tempo l’accomuna ad altre regioni lontane del Mediterraneo. E, nelle parole dell’autore, il caso di Reggio Calabria, per tanti secoli refrattaria al vicinissimo mare riscoperto solo di recente, diventa emblematico di tutta o quasi la punta dello stivale che le sta dietro.

La Calabria, quasi circondata da questo “mare interno”, appendice di un continente, terra di confine tra tanti Mediterranei può, nelle parole di Saverio Di Bella, docente di Storia moderna dell’Università di Messina, mettere in crisi la visione cristallizzata dei rapporti internazionali e proporsi come un importante “ponte tra i popoli”. Un trait–d’union e non una trincea armata contro il nemico per un ripensamento globale del ruolo delle aree “marginali” nell’equilibrio Mediterraneo in Epoca Moderna.

Un posto a parte, infine, merita il lavoro del giornalista Roberto Messina centrato sul rapporto viaggiatore-turista nel Mediterraneo. Un contributo quanto mai utile per riflettere sulle proporzioni sempre più massicce che il turismo sta assumendo nella società attuale e in Calabria in particolare: una società viaggiante che cerca l’incontro con la realtà esterna. Una riflessione su tale ricerca, spesso superficiale e rare volte seria e scevra di pregiudizi e banalità, può essere di particolare pregnanza per la realizzazione di un turismo sempre più intelligente e culturalmente valido.

Vincenzo Iuffrida

Per un dialogo interculturale nel Mediterraneo

Con la scomparsa dell’equilibrio bipolare USA–URSS e le sue inevitabili ricadute sui rapporti politico–economici a livello mondiale, il Mediterraneo è di nuovo nell’occhio del ciclone delle tensioni internazionali con inevitabili ricadute sul sistema Italia.

Dopo l’insuccesso del tentativo della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione nel Mediterraneo (CSCM) degli inizi anni Novanta, promossa dall’Italia e dalla Spagna, e tenendo presente l’affermazione dell’UNESCO che «le guerre iniziano nella mente degli uomini»la situazione odierna del Mediterraneo, dove l’Italia svolge o dovrebbe svolgere un’azione di primo piano, pone il problema dell’analisi e della concezione dei rapporti in questo bacino dove s’incrociano molteplici relazioni: di spazio, di società, di religioni, di sistemi politici, economici e culturali.

Oggi il Mediterraneo è un focolaio di tensioni, definito dagli strateghi “una struttura conflittuale”. Ciò in forza della sua importanza strategica a più livelli:

  • livello geografico (mare trait d’union fra tre continenti e diverse realtà subregionali),
  • livello economico (forte concentrazione di materie prime, di capacità tecnologiche, di grandi mercati e di risorse umane),
  • livello politico (un insieme di sistemi ed alleanze politiche differenti, dominati dalla strategia del grande capitale internazionale e dall’egemonia americana),
  • livello socio–culturale (amalgama di società e culture contrastanti, oltre lo stridente gap demografico ed economico).

Nella presa delle decisioni politiche, economiche e culturali, s’impone l’importanza dei dati geografici e storici. Infatti, dopo la caduta delle tensioni Est–Ovest, il Mediterraneo è diventato “la nuova frontiera” tra mondo sviluppato e quello sottosviluppato, tra civiltà occidentale e civiltà “altre”, dove si è rivolto il nuovo dispiegamento della NATO di cui l’Italia è membro attivo. Questo apparato difensivo viene messo in opera per far fronte alle cosiddette “nuisances” provenienti dalle zone calde mediterranee, quali il macroscopico fenomeno delle tensioni balcaniche, delle migrazioni, del fondamentalismo islamico, etc.

Per contro i paesi della riva sud–orientale rivelano un senso di sfiducia e il timore di essere marginalizzati o peggio di essere costretti a sottostare a nuove forme di sfruttamento. E’ una delle aeree del globo dove gli squilibri tra capitale umano e risorse sono enormi, ma dove esistono pure profondi legami storici, scambi di economie e di civiltà radicati nella storia. In sintesi si può ben dire che il Mediterraneo è la cerniera dell’antinomia e della complementarità tra le sue rive. Siamo però convinti che gli antagonismi hanno lasciato rancori e ferite meno importanti degli incontri e dei contributi positivi nello spazio e nel tempo.

Considerate le difficoltà politico–economiche operanti oggi in questo mare, bisogna puntare sul “dialogo interculturale” cui finora si è dato poca importanza per la reciproca ignoranza e i pregiudizi, dialogo questo per la prima volta avviato dalla Conferenza euromediterranea di Barcellona del 1995, ma le cui grandi potenzialità non sono ancora state sfruttate. Oggi si parla di confidence building measures: occorre realizzarle con la conoscenza e il dialogo tra culture e civiltà. Sono processi di apprendimento reciproco in tempi non brevi ma necessari, se si vuole creare un ecosistema di nuovi rapporti nel Mediterraneo per sapere come dialogare gli uni con gli altri e quindi accettarsi e collaborare nel rispetto delle proprie identità. E qui deve essere valorizzato il ruolo di mediatore sociale e culturale delle regioni meridionali italiane in forza della loro secolare storia migratoria. Proprio per contrastare le preoccupante affermazione di S.P. Huntington: «the next war will be a war between civilizations», si deve promuovere la reciproca conoscenza e comprensione tramite l’interculturalità: sviluppare i legami culturali e sociali esistenti tra le civiltà compresenti nel Mediterraneo e farle dialogare aldilà delle barriere etniche, culturali e religiose.

Per contribuire a realizzare questa cooperazione culturale, occorre promuovere iniziative di base come la mobilità di scambio di studenti e docenti nell’aerea mediterranea (migliorando e potenziando ad esempio il programma Medcampus), la creazione di università, scuole di specializzazione e centri ricerca ad hoc; l’istituzione di cattedre transmediterranee di storia, di economia, di politica, d’ecologia, etc.; rinnovare i programmi delle scuole di base e secondarie con lo studio approfondito delle civiltà mediterranee, promuovere confronti e scambi tra sistemi educativi, previdenziali, etc.; utilizzare i fenomeni migratori quali mezzi di conoscenza reciproca con benefici interni ed esterni ai paesi interessati; organizzare festival culturali, mostre artistiche, progetti editoriali e multimediali, manifestazioni sportive ed altro ancora.

In questo ambito appare evidente la posizione strategica e le competenze delle nostre regioni meridionali quali naturali poli di politiche interculturali per affrontare il macroscopico fenomeno migratorio dalla riva sud verso l’Unione Europea sulla base delle loro secolari esperienze migratorie. Oggi la storia si è solo capovolta. L’Italia, in primis le regioni meridionali, debbono assumere e guidare la gestione dei flussi migratori e realizzare strutture d’accoglienza e d’integrazione in vista della formazione di una nuova società multietnica e multiculturale.

Michele A. Brondino

Scrittori Italiani in Tunisia

La caratteristica della vita culturale e sociale della Tunisia a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento risiede sicuramente nel multiculturalismo e nella coabitazione delle razze e delle culture che s’impiantarono su un terreno fertile, da sempre terra di asilo e focolaio di scambi tra le civiltà mediterranee. La coabitazione tra le varie culture europee e la cultura locale fu vissuta ora sotto il segno dell’integrazione e dell’amalgama, ora sotto il segno della rivalità storica e dello scontro sociale. Il panorama della produzione culturale degli italiani in Tunisia, dalla stampa all’architettura, dalla pittura alla letteratura, dalla lingua alle tecniche artigianali, dimostra come ciò che unisce supera di gran lunga ciò che divide e come le regioni dell’Italia meridionale fungessero già allora da ponte tra le due rive del Mediterraneo.

Per quanto riguarda in particolare la vita intellettuale della Tunisia tra cultura araba, ebrea, maltese, francese e italiana, è interessante rilevare come lo sguardo dei letterati italiani, a differenza di quello francese per esempio, si soffermò essenzialmente, al di là delle rivendicazioni di tipo coloniale, sugli aspetti legati all’emigrazione, allo scambio etnico, alle lotte sociali.

Lo sguardo dell’emigrazione è quello di molti scrittori italiani in lingua italiana o francese, figli delle innumerevoli famiglie italiane giunte in Tunisia con le grandi ondate migratorie dalla fine dell’Ottocento in poi, provenienti dalle regioni meridionali soprattutto e che andarono ad ingrossare il proletariato e sottoproletariato tunisino alla ricerca di un posto al sole e di un pezzo di pane. Come non ricordare Francesco Santoliquido, Clarice Tartufari, Gastone Costa e Cesare Luccio in particolare in Cinq hommes devant la montagne o La Sicile à Tunis, che descrive fedelmente gli usi e costumi degli emigrati sardi, siciliani, calabresi, la loro tenacia, il senso dell’onore, le superstizioni, le feste, un vissuto quotidiano che spesso si sovrappone a quello dei tunisini, negli stessi quartieri, nelle stesse case parlando lo stesso sabir fatto di arabo, francese e dialetti italiani, e che dà talora origine ad agglomerati cittadini denominati la petite Sicile, la petite Calabre. Emigrazione, integrazione, identità etnica, gli stessi punti nodali che caratterizzano ancora oggi, anche se in senso inverso, i rapporti italo–maghrebini.

E proprio in forza di questa comunanza di vita, di ambiente e di lingua, fra i tanti poeti italiani che dissero in versi la loro appartenenza a due mondi, dai Canti dell’anima di Tommaso Papa ai Canti D’Africa della Menotti Corsini, si distingue la voce di Mario Scalesi con i suoi Poèmes d’un maudit. Figlio dell’ambiente degli emigrati siciliani, autodidatta nella lingua del colonizzatore, il francese, poeta del paesaggio fisico e umano di Tunisi dove nacque e visse, figura multiculturale per eccellenza, appartenente alle tre civiltà, poeta mediterraneo, la cui sensibilità e il cui lirismo guidarono la rivendicazione di una autentica letteratura nordafricana. Fu pure il poeta degli emarginati, degli sfruttati, dei «rassegnati, spossati dal lavoro», dei dannati della terra che ogni società secreta. Assecondò in questo, un altro grande filone della presenza italiana in Tunisia: la stampa italiana con le sue 121 testate dal 1838 al 1956 e, fra tante altre, la grande figura calabrese di Niccolò Converti (nato a Roseto Capo Spulico nel 1858 e morto a Tunisi nel 1939) che guidò la protesta sociale e la difesa dei più deboli, senza distinzione di razza, di cultura, di origine. Di professione medico filantropo (è uno dei fondatori dell’Ospedale Italiano di Tunisi), Converti esplicò un’instancabile attività di agitatore sociale e politico, di scrittore e di giornalista. Arrivato in Tunisia nel 1887, fondò ben sette giornali tra cui “L’Operaio” che è il primo giornale precursore della stampa di protesta sociale e sindacale in tutto il Maghreb.

La presenza italiana nel Nordafrica con figure come queste che seppero rompere il concetto monolitico di identità e far proprio il multiculturalismo della riva sud del Mediterraneo, costituisce un patrimonio comune importantissimo, bagaglio prezioso per le nuove generazioni e modello di interculturalità per una società multietnica. Nel momento in cui l’interculturalità viene considerata una delle competenze primarie per il cittadino del terzo millennio, l’Italia e in particolare le regioni meridionali, terre di secolari migrazioni, sappiano far tesoro di una storia antica e recente fatta d’intensi scambi con la riva sud.

Yvonne Fracassetti Brondino

Schiavi e corsari, esuli ed immigrati: calabresi in terra d’Africa

«Tunisi. Adì 3 maggio 1795. Paolo Rosso di S° Lucido in Calabria schiavo del Bey passò a miglior vita nell’ospedale de’ Padri Trinitarj munito de santi sacramenti consunto dalla vecchiaia. Il suo corpo fu sepolto in S. Ant° nel sepolcro degli schiavi».

Le parole di quest’atto parrocchiale e di migliaia di altri simili, sopravvissuti negli archivi delle chiese africane, suonano come un invito a scrivere pagine tormentate e dimenticate della storia dei calabresi, degli italiani e degli abitanti del Mediterraneo. Sarebbero pagine spesso poco gloriose, che parlerebbero di sopraffazione e di lavori forzati, di voglia di riscatto e di guadagnata libertà, per ricchi e per poveri, per uomini, donne e bambini. Migliaia e migliaia catturati nel corso dei secoli durante le numerosissime e cruente incursioni dei corsari: a Cetraro e a San Lucido (1534), a Reggio (1543), a Cariati (1544), a Palmi (1549), a Paola (1555), a Pallagorio (1604), a Nicotera (1638), a Stalettì (1644) e così via fino al XIX secolo. Sarebbero pagine anche ricche di personaggi avvolti nella leggenda: i “convertiti”, traghettati a forza o per proprio volere dall’una all’altra sponda non solo geografica ma anche religiosa. Per intenderci: i “convertiti” dei musulmani sono le stesse figure stigmatizzate come “traditori” e “rinnegati” dai cristiani.

Tra questi rinnegati molti e dei più noti sono calabresi. Come dimenticare, infatti, la figura di Uluj Ali, meglio noto come Ucciali il Calabrese, catturato durante un’incursione del XVI secolo lungo le coste della Calabria e diventato un fedele musulmano, un temutissimo raïs corsaro, un potentissimo pascià di Algeri. Come tacere, inoltre, la storia di vendetta di Giovanni Andrea Capria, barcaiolo di Nicotera che, per vendicare l’onore della figlia sedotta dal conte Ruffo, va a Tunisi, diventa presto un corsaro musulmano, e nel 1638 guida i tunisini all’assalto della città. Non trova l’odiato conte, trova però la pace e la morte. Come non menzionare, infine, la storia dell’incursione di Stalettì nel 1644, provocata anch’essa dall’astio di un calabrese nei confronti di un suo concittadino, reo di averlo offeso nell’onore.

Ma i tempi cambiano e nell’Ottocento, sotto la spinta dei moti risorgimentali, l’Africa settentrionale da luogo di detenzione diventa luogo d’esilio volontario per uomini politici scomodi e compromessi nella lotta contro il regime borbonico. Le pagine di questa storia potrebbero ritrarre volti di uomini noti e meno noti che trovano in Africa una terra accogliente dove vivere in attesa di tempi migliori, spesso per tutta la vita. Tra questi esuli calabresi si ricordano: Bernardo Caruso di Agnana, attivista politico; Giuseppe Guasto di Castrovillari, ex soldato; Francesco Chiantella di Reggio Calabria, calzolaio e rifugiato; infine, Giuseppe Sinopoli e Ignazio Cirillo di Catanzaro, esiliati anch’essi per motivi politici.

Ed i tempi cambiano ancora. Dall’immigrazione forzata si giunge all’immigrazione voluta, cercata spesso clandestinamente per scongiurare i più terribili dei nemici: la fame e la povertà. In questo capitolo di storia da narrare si passerebbe dal ritratto dello schiavo e del rifugiato politico all’affresco corale dei lavoratori che pian piano creano la loro fortuna nelle campagne e nelle città assolate dell’Africa. Basti pensare che dal 1876 al 1925 sono circa 26.000 i calabresi che ufficialmente si riversano in quel continente. In Tunisia, in Algeria ed in Egitto più che nel Marocco e nella stessa Libia italiana. E il flusso continua negli anni successivi.

Alcuni interrogativi sono inevitabili. Chi sono, ad esempio, quelle migliaia di calabresi, che insieme ad altre decine di migliaia di italiani, cercano l’“America” proprio in Africa? Come vivono in quella terra? Ce ne sono ancora? Sarebbe interessante ripercorrere la vita di questi contadini, pescatori, carpentieri e muratori, maestri, medici e avvocati che, come stagionali o come residenti, trovano un modo per sbarcare il lunario, per crearsi una piccola fortuna, per richiamare in quelle terre di lavoro parenti e amici, per sposarsi e far nascere altri “italiani d’Africa”. Solo pochi in proporzione al totale lasciano delle tracce. Tra tutti spicca la figura di Niccolò Converti di Roseto Capo Spulico, medico rinomato, animatore culturale e politico.

Quelle degli italiani in Africa nella prima metà del XX secolo sarebbero pagine di storia veramente entusiasmante. Ma dal conflitto mondiale in poi, le pagine diventerebbero un calvario doloroso da scrivere e da leggere. L’esproprio di gran parte dei beni voluto dai governi coloniali, l’internamento nei campi di concentramento, l’espulsione forzata per molti di loro… E, quindi, i ritorni disperati da clandestini dentro le stive dei pescherecci per ritrovare i propri cari, le rivendicazioni spesso e a tutt’oggi inascoltate. Una parte di storia quasi occultata e quanto mai ricca di umanità.

Così oggi, mentre si parla in modo così inquietante del fenomeno dell’immigrazione extra–comunitaria in Calabria, in Italia e in Europa, può essere salutare oltre che doveroso ricordare le tappe rimosse dalla nostra memoria collettiva per riscoprire legami sempre esistiti con l’altra sponda del Mediterraneo e per ripercorrere rotte sempre affollate di speranza e di disperazione in tutte le epoche della nostra storia. In un senso come nell’altro.

Salvatore Speziale

L’islam in Calabria

Questo contributo è il frammento significativo di un’opera che mira a presentare il quadro odierno della presenza dell’islam in tutta Italia. Un quadro realizzato grazie ad un lungo viaggio denso di ricerche e di incontri attraverso l’intera penisola: dalla Sicilia, la terra italiana più legata storicamente al mondo arabo, al Veneto e al Piemonte. Appena oltrepassato lo stretto di Messina, ho incontrato una realtà islamica ancora poco conosciuta e che merita sicuramente attenzione da parte degli studiosi come della gente del luogo.

Prima di parlare però dei nostri giorni è forse necessario ricordare che in Calabria non è mancata una presenza storica dell’islam. Oltre mille anni fa, nel 902, dopo aver scavalcato lo stretto di Messina, faceva, infatti, un trionfale, anche se effimero, ingresso a Reggio Calabria Ibrahim II, che sarebbe di lì a poco deceduto sotto le mura di Cosenza, durante il proseguimento della sua campagna militare, senza aver potuto dare una qualche stabilità alle sue conquiste in terraferma. Più tardi, nel 950, Reggio avrebbe avuto la sua prima, anche se altrettanto effimera, moschea. Nel 983 gli arabi, guidati da Sabir, dopo essere sbarcati a Sant’Eufemia, si diressero verso Maida e Tiriolo, facendo duemila prigionieri. E ancora nel 986, come scrive un cronista dell’epoca, «gli Arabi catturarono la santa città di Chiriaco e devastarono l’intera Calabria». Infine, nel 1020 assalirono nuovamente il castrum maidanum e lo distrussero.

Oggi, mille anni dopo, l’islam è tornato nella città e nella regione, dove conosce un precario, in termini di strutture, ma progressivamente stabilizzato divenire. Nelle città, come altrove. Qui in Calabria, infatti, come in altre regioni del sud, si sviluppa un islam particolare, pochissimo o per nulla conosciuto, completamente assente dal palcoscenico dei media. Un islam, oltre tutto, pressoché sconosciuto agli stessi gruppi islamici organizzati. Si tratta, infatti, di un gruppo di moschee tutte nate “dal basso”, senza spinte organizzative di qualsivoglia genere, senza apparenti legami con organizzazioni nazionali, e senza l’apporto di nessuna élite intellettuale, come potrebbero essere gli studenti musulmani o i convertiti. E quasi tutte sono nate in piccoli centri, al di fuori delle città principali e delle reti di collegamento e di transito – anche questa una genesi abbastanza insolita, peculiare, dato che l’islam europeo è soprattutto un fenomeno urbano.

Una moschea in particolare, situata in un piccolo centro costiero in provincia di Catanzaro, rappresenta una esperienza di un certo interesse, per molti versi atipica. La moschea l’ho trovata che era ormai sera, all’ora di ish, l’ultima delle cinque preghiere giornaliere che scandiscono la vita del musulmano praticante. Entrato in un cortile, su una strada isolata, mi sono ritrovato in un altro paese: ero in Marocco. Qui viveva, infatti, in vari appartamenti ma in sostanziale coabitazione, un gruppo di circa una ventina di marocchini: alcuni in famiglia, più un certo numero di singles, come lo sono in maggioranza gli immigrati maghrebini in Italia. Singles apparenti, per la verità: molti avevano mogli e figli in Marocco. Ma la peculiarità maggiore è che si trattava di immigrati molto ben inseriti, regolari e ben integrati, e che in parte erano in Italia anche da più di vent’anni. Qui, in questo paesino calabrese, avevano creato una sorta di “comune islamica”, una repubblica autonoma autogestita governata dalle scansioni temporali della preghiera: una situazione in cui, evidentemente, anche il controllo sociale e quello sulla moralità anche dei singoli è praticamente assoluto.

Sorprendente la visibile coesione del gruppo e l’autoconsapevolezza del proprio ruolo religioso, pur vissuto con un certo pudore, una certa modestia, e in atteggiamento di apertura. La moschea, infatti, non è “privata”, e d’estate, nella stagione turistica, con l’arrivo degli ambulanti veri e propri e dei lavoratori stagionali, la popolazione islamica aumenta sensibilmente e si diversifica per nazionalità, includendo anche somali, pakistani, senegalesi.

Stefano Allievi

I corsari barbareschi e l’Europa mediterranea 

Poche regioni del mondo hanno dato luogo a tante paure e a tanti malintesi quanto il Maghreb per gli Europei. Questi ultimi sono sempre più o meno convinti che, dall’inizio del XVI secolo fino al 1830, i corsari, senza fede e senza legge, usciti dai porti di Algeri, di Tunisi e di Tripoli, non hanno cessato di saccheggiare le coste europee, specie quelle più vicine al Maghreb, e di catturare i malcapitati battelli di commercio che si arrischiavano a navigare in questo mare. Non s’intende certo negare l’esistenza dei corsari. Tra l’altro, proprio il litorale della Sicilia e della Calabria, tratteggiato da secoli da numerose torri di guardia destinate a segnalare i temuti attacchi, offre ancora oggi una delle più significative testimonianze del concreto pericolo e del profondo clima di terrore in cui vivevano le popolazioni dell’intera Europa mediterranea. S’intende piuttosto affermare che le cose non erano così semplici come erano dipinte: terrore degli abitanti della sponda nord del Mediterraneo, questi corsari erano considerati nella sponda sud come dei valorosi guerrieri dell’islam; esisteva inoltre una corsa cristiana attiva ed efficace, la cui componente più celebre era l’Ordine di Malta e infine, nel corso di questi tre secoli, le cose si sono notevolmente evolute. Basandomi su una ricca documentazione sia maghrebina che europea, ho tentato di seguire l’evoluzione della corsa, di descrivere e di analizzare i suoi caratteri fondamentali. In seguito, sono stato colpito da un evento insolito e, fino ad oggi, sconosciuto: il tentativo dei corsari di abbandonare volontariamente la corsa a profitto del commercio marittimo. Per ultimo, ho cercato di sapere perché, e come, la corsa sia infine scomparsa.

L’apogeo della corsa si situa negli anni 1580–1660 ed è in quest’epoca che appaiono le torri di guardia e che la paura dei corsari si diffonde tra le popolazioni delle nostre coste, dalla Sicilia alle Baleari, dalla Calabria a Gibilterra. Dopo il 1660, gli stati europei ottengono, gli uni dopo gli altri, con la forza e/o con dei doni importanti, di vedere le loro coste e le loro navi rispettate dai corsari. Gli ultimi a firmare tali trattati di pace con le reggenze barbaresche furono i partecipanti alla battaglia di Lepanto: Venezia nel 1764–1765, infine Napoli nel 1799 e nel 1812 con Tunisi e nel 1816 con Tripoli. Così si comprende meglio perché verso il 1798–1816, il 60% delle navi catturate dagli algerini battono bandiera napoletana e, di riflesso, perché la maggior parte degli schiavi in terra maghrebina è formata di siciliani, calabresi, pugliesi e napoletani. Per i maghrebini, la corsa è certo un’azione di slancio religioso ma è anche, e soprattutto un affare commerciale. I carichi sono venduti e le navi catturate alimentano un prospero mercato di navi d’occasione dove gli europei stessi vengono a rifornirsi. Quanto agli sfortunati prigionieri cristiani, essi sono detenuti, senza eccessive brutalità, nell’attesa di essere riscattati al miglior prezzo. Ma bisogna ricordarsi che numerosi musulmani si trovavano, nello stesso momento, nei bagni di detenzione italiani, maltesi o spagnoli. Infine, la sola minaccia della corsa era sufficiente a spingere gli stati europei a versare delle somme notevoli nelle casse dei governanti maghrebini. Nel complesso, la corsa barbaresca era divenuto un racket prospero i cui benefici erano ripartiti tra i partecipanti secondo regole precise.

La vigorosa rinascita della corsa barbaresca nell’ultimo decennio del Settecento, dovuta agli sconvolgimenti della Rivoluzione francese, si arresta quasi completamente nel 1806. Per la prima volta nella loro storia, i battelli corsari si trasformano in pacifici cargo che sono accolti nei porti europei dove scaricano le loro merci. In un Mediterraneo totalmente impegnato nella guerra che regna tra francesi e inglesi, i maghrebini, sudditi ottomani come i greci, approfittano della loro neutralità per lanciarsi, con successo, nel trasporto e nel commercio marittimo. Il ritorno della pace nel 1814 gli è fatale giacché non hanno la forza di resistere al ritorno degli europei. Ridiventano dunque dei corsari, ma ormai è troppo tardi. Il Congresso di Vienna che aveva condannato la tratta dei neri verso l’America non poteva ammettere quella dei bianchi nel Mediterraneo. La squadra di Lord Exmouth bombarda Algeri nel 1816 e terrorizza Tunisi e Tripoli, e le poche incursioni corsare che si registrano negli anni successivi non contano più nulla e si arrestano, definitivamente, nel 1830. Finisce un’epopea.

Daniel Panzac (traduzione di Salvatore Speziale)

La paura del mare in Calabria nel Cinquecento[1]

Durante la prima metà del Cinquecento le autorità governative del Regno di Napoli commissionarono un’indagine statistica sulla popolazione di Grotteria, in quel tempo centro a capo di un’ampia contea che si estendeva lungo il versante ionico della Calabria Ulteriore. Un regio commissario si recò sul posto al fine di interrogare i parroci ed altri personaggi della città ritenuti attendibili, circa il tenore di vita ed i costumi degli abitanti grotteresi. Il provvedimento, di probabile ma non del tutto certa origine fiscale, avrebbe tratto giustificazione dalla necessità di verificare la presenza o meno di evasori o comunque l’esistenza di singoli casi di iniquo rapporto fra redditi e imposte. Si trattò di una vera e propria inchiesta sui fuochi della città per la quale furono verbalizzate migliaia di pagine, contenenti la minuziosa descrizione dello stato di ogni singola famiglia e individuo, vivente o di recente estinto. Di questa notevole, antica e rara documentazione è sopravvissuto soltanto un frammento di oltre 100 facciate, la cui edizione integrale sarà oggetto di altro studio. Qui mi limito a riferire che il frammento in questione, che è databile al periodo 1535–1540, è sufficiente ad abbozzare i contorni del tenore di vita, degli usi e dei costumi della società locale del tempo.

Fra i molteplici aspetti di una società complessa e articolata quale quella che emerge dall’analisi della documentazione, si ritrova presente in tutta la sua drammatica portata un elemento di certo prevedibile, considerata l’epoca, ma che non può lasciare indifferenti: la paura del mare. Il Mediterraneo, in cui la Calabria si ritrovava totalmente immersa, veniva percepito dai calabresi del Cinquecento come una vera e propria fonte di pericolo, a causa delle continue incursioni saracene cui la regione era oggetto da tempo.

[1] Quest’intervento è stato pubblicato nella brochure del 2000 in forma ridotta per esigenze tipografiche.

Abitare in un centro situato a notevole distanza dalla costa, quale Grotteria, costituiva certamente un vantaggio ma non garantiva assoluta protezione. Fra le descrizioni superstiti di fuochi ve ne sono circa una decina che trattano di famiglie spezzate per sempre da un rapimento di un congiunto. Ne trascrivo integralmente due in tutta la loro drammaticità:

«…Super 23 dixit che conosce Catharina, vidua de Angelo Belmonte, preso da Turchi ha(ve) circa XXV anni, secondo ha inteso dire da più persone et dalla preditta, la quale sempre l’ha conosciuta in habitu viduale, con una figlia femina schetta (nubile), povere, che se campano de loro fatiche…».

«…Super 142 dixit che conosce Cacea vidua de Alfonso Marando preso da Turchi ha(ve) circa X anni et non se recattò altramente né se n’è havuto più nova, et non lasciò altro che la preditta (Cacea), quale è sola, senza figli, povera che campa de soi fatiche. De causa scientie etc…».

Da questi due rari due passi traspare in modo crudo la sofferenza reale, tangibile dei calabresi direttamente colpiti dal fenomeno. Una sofferenza giorno per giorno acuita dalla fatale consapevolezza di non essere in condizione di pagare un riscatto (Cacea), e un dolore al quale non avrebbe potuto porre rimedio neppure l’immediata rassegnazione che aveva indotto Caterina ad indossare l’abito vedovile dopo il rapimento del marito.

Il timore del mare varcava i confini delle classi sociali accomunando chiunque. Certamente chi avesse goduto di una apprezzabile posizione economica avrebbe potuto garantirsi una maggiore incolumità ma la paura rimaneva diffusa dovunque. Il timore dei pericoli provenienti dal mare, infatti, aveva spinto alcuni esponenti dell’aristocrazia di Motta Gioiosa, oggi Gioiosa Ionica, un centro limitrofo più prossimo alla costa, ad acquistare una seconda casa nella più interna Grotteria: qui trascorrevano l’estate, stagione ritenuta a più alto rischio di scorrerie saracene a causa delle condizioni metereologiche favorevoli alla navigazione. Trascrivo il testo che narra di uno di questi casi:

«…Super 158 dixit che conosce Cola Giovanne Carella quale è cittatino della Motta Gioiosa dove have habitato et continuamente habita con sua moglie e fameglia; pure in la Grutteria veneno ad habitare in tempo d’estate per pagura delli Turchi. De causa scientie etc…».

Nonostante gli innumerevoli benefici dovuti alla sua presenza (traffici commerciali, pesca, aspetti climatici, etc.), il Mediterraneo percepito dai grotteresi del Cinquecento rimaneva comunque un mare invadente, pericoloso, un’entità da cui era bene stare lontani se si voleva vivere tranquilli. Il litorale e le acque erano frequentate solo da «esperti», dai professionisti del mare: i commercianti, i pescatori ed i militari: la gente comune evitava il mare. Le coste erano così destinate a rimanere disabitate ed i centri si mantenevano arroccati all’interno: il paradosso di una terra di mare con un mare ingombrante viene pienamente confermato dalle microstorie grotteresi.

Vincenzo Naymo

Volti diversi di una Calabria mediterranea[1]

Ci sono due Calabrie in rapporto con il Mediterraneo: una in relazione diretta, quella del mare, dei Greci, dei Romani, dei Bizantini, degli Arabi, degli Spagnoli e infine dei clandestini albanesi; l’altra in relazione indiretta, per analogia al Mediterraneo delle montagne, dei pastori, dei boschi, quella dei Bruzi, dei Calabresi, insomma, che non hanno mai visto il mare. Partiamo da questi ultimi, che appaiono i più distanti dal rapporto mediterraneo; appaiono appunto, perché forse non siamo abituati a pensare al Mediterraneo come un susseguirsi di montagne “pendule” sul mare, ma che da questo si ritraggono e in ogni caso lo rimuovono.

Per quanto “stretta e lunga” la regione calabrese ha albergato nel suo seno popoli di pastori, di gente di montagna, che se il mare vedeva, lo guardava dalle lontane cime della Sila, del Pollino, dell’Aspromonte e delle Serre. Quella gente dell’arrière–pays, dell’entroterra, delle colline e delle montagne, non è dissimile da quella che abita le montagne dei Balcani, quelle libanesi, le anatoliche, le spagnole, come ci ha insegnato mezzo secolo fa il grande rinnovatore della storia Fernand Braudel. Genti che non si conoscono affatto fra di loro, ma che hanno movenze e comportamenti molto simili, e un rapporto indiretto, molto indiretto col mare.

Ma in Calabria, in età moderna, addirittura una città di mare come Reggio Calabria deve aspettare il 1783 per vedere abbattute le mura che la dividono e la allontanano dal mare: per secoli, dopo l’avvio greco, era vissuta volgendo le spalle al mare, chiusa al richiamo delle sue sirene persino visivamente. Non tutti i terremoti vengono soltanto per nuocere: quello del XVIII secolo riaprì vista, polmoni e navigazione ai reggini (e ancora di più a scillesi e bagnaroti), messi di fronte al mare senza ostacoli materiali, senza guerre sante da dover combattere e a probabili schiavitù dei “turchi”.

Una storia interessante, quella particolare di Reggio Calabria: dal 1783 la città si è andata aprendo sempre più verso il mare, prima col porto ottocentesco, poi con il lungomare novecentesco, infine con il nuovo lungomare dell’inizio del XXI secolo. Dopo più di due millenni  di vita, quindi, la città ha rivisto se stessa, ha ripensato il suo rapporto con il mare, ha intessuto un nuovo dialogo con l’ambiente che la circonda: la montagna che preme da una parte, il mare che la bagna dall’altra e poi l’altra terra, la Sicilia.

La storia di Reggio Calabria diventa quindi emblematica del rapporto ambivalente con il Mediterraneo che l’intera sua regione sembra vivere. Il suo passaggio da città rivolta all’entroterra a città rivolta al mare rispecchia la chiusura e l’assenza di comunicazioni marittime che ha caratterizzato per gran parte dell’età moderna e contemporanea il resto della regione e che solo di recente si sta decisamente trasformando.

Bisogna aggiungere però che il sito reggino sullo Stretto è particolarissimo rispetto al resto della Calabria: fu scelto da Apollo, divinamente oracolante a Delfi, per la congiunzione di mare, terra, acque di fiumi, luminosità, cieli e per una femmina che s’avvinghia a un maschio, una vite ad un fico, sulle rive del sacro fiume Apsia (oggi lo chiamiamo Calopinace). Quella connotazione sacrale del sito mediterraneo è stata il fondamento di una città della Calabria che da ventisette secoli resiste a tutto, una città che ha sposato quel sito e ha mantenuto la sua fedeltà plurisecolare malgrado catastrofi d’ogni genere, momenti difficilissimi in cui altri sposi si sarebbero lasciati. In quel luogo fermarono il loro moto verso l’Ovest i calcidesi avventurosi, mescolandosi a chi già prima l’abitava: non era un deserto e mai lo diventerà, alimentato com’è dal soffio del Mediterraneo. Reggio, Crotone, Tropea, Lamezia: sono i punti di “invasione” mediterranea della Calabria, piattaforme girevoli non solo di uomini e merci, ma anche di idee.

Giuseppe Restifo

[1] Questo contributo è stato presentato nel 2000 in forma più sintetica per motivi di spazio.

Il rapporto Calabria/Mediterraneo in Epoca moderna

La Calabria è, ancora oggi, considerata marginale e periferica, senza peso e senza storia rispetto alle altre regioni italiane. Il giudizio non cambia ove l’orizzonte si allarghi alle regioni del Mediterraneo e si tenti di costruire una comparazione basandosi sulle conoscenze diffuse e quindi sulle idee e sulle immagini che si hanno come frutto di tradizionali saperi. Questo immaginario collettivo ha certamente radici e cause nelle vicende della Regione; ma è, con altrettanta certezza, il frutto di una serie di pregiudizi reciprocamente rafforzati nel tempo fino a costituire un cliché.

Rompere questo cliché, abbattere un luogo comune deleterio e dannoso è una sfida degna per un uomo che vuole volare alto. Come esemplificazione del fatto che la sfida si può vincere si consideri la realtà di razza e del peso di questi rapporti tra Calabria e Impero Turco sullo scorcio della seconda metà del Cinquecento e per il Seicento. Lepanto è alle spalle, la flotta ottomana viene ricostruita anche con l’aiuto di profughi meridionali e calabresi; a Costantinopoli vive e opera un quartiere abitato esclusivamente da calabresi e il più grande dei calabresi di quel tempo, un uomo straordinario a livello mondiale, Tommaso Campanella nella sua utopia rivoluzionaria, illustrata ne La città del sole, pensa di poter avere come alleati i Turchi contro il dominio spagnolo. Il solo ipotizzare tale soluzione utile alla vittoria costituisce una rivelazione e, quindi, la spia di una rivoluzione culturale: la Spagna cattolica con la sua Inquisizione e il nemico, la Turchia, col suo Impero capace anche di aperture e di tolleranze, è un braccio armato alleato per la libertà. E’ la libertà, si potrebbe dire provocatoriamente. Basta porsi per un solo attimo da questa prospettiva per vedere traballare e crollare certezze antiche, ricostruzioni famose per le quali il nemico è sempre il turco, il saraceno, feroce incarnazione del male, di ogni male. Gli altri, cioè noi, gli occidentali siamo buoni per antonomasia.

La Calabria periferia, confine, trincea armata contro il nemico, sente la distorsione violenta che accettare quel ruolo, frutto di coartazione politica, comporta, sente che le aree di confine possono mettere in crisi un sistema e proporsi come “ponti” tra i popoli costringendo i governi a modificare strategie e valori. Credo ci siano motivi più che sufficienti per ripensare il rapporto Calabria/Mediterraneo in Epoca Moderna.

Saverio Di Bella 

Viaggiatori e turisti nel Mediterraneo ed oltre[1]

In un suo recente libro il sociologo francese Jean–Didier Urbain prova a gettare una nuova luce sul rapporto viaggiatore–turista in questo mondo contemporaneo diventato letteralmente una “società viaggiante” o, appunto, una “società di turisti”, di “homini peregrini“, di “xenomani” appassionati di ciò che è straniero, con il gusto della mobilità e della ricerca forsennata di novità. Una letteratura fin troppo nota e diffusa (da Sterne a Diderot, da Stendhal a Dumas, da Metraux a Kerouac) – scrive Urbain – ha finora generalmente esaltato le qualità del viaggiatore a discapito di quelle (tutte al negativo) del turista.

Il viaggiatore–scrittore, come un imperatore offeso, si è avvolto nella sua dignità di intellettuale e, lontano dalle “truppe turistiche”, non ha fatto mistero del suo disprezzo. Per lunghi anni ha rimproverato al turista l’introduzione di rapporti mercantili all’interno della disciplina nobilissima del Gran tour del Mediterraneo, la tendenza a degradare alcune pratiche vitali a sport e gioco, la “perversione” delle tradizioni e l’ottica lussuriosa ed egoistica che, ad esempio, nelle isole dei Mari del sud, ha finito per trasformare le danze rituali in esibizioni mercificate, maliziose ed impudiche.

Questo turista massificato raggiunte tutto. Fotografa tutto, reifica e racconta tutto, rende imitabile ed imitato il viaggio. Il viaggiatore vero, quello che per tanto tempo ha monopolizzato la profondità del mondo e il senso delle cose, e gettato lontano ed in splendida solitudine il suo sguardo unico sulla terra, si è dunque sentito togliere de facto questo privilegio da tanti sguardi multipli superficiali e curiosi: quelli di chi, secondo lui, non vanno verso le cose ma verso l’immagine delle cose, cioè verso cose del mondo ridotte al segno o al segnale. Il suo viaggiatore da romita, la sua ars peregrinandi, vengono disturbati, resi difficoltosi, impediti da una carovana sempre più affollata di passeggeri, e sempre meno disposta a vedere ciò che va visto del mondo rispetto a ciò che del mondo vien detto di vedere. Da tanta gente che, affidata all’organizzazione dei tours operator internazionali, si muove senza avventura e senza poesia in un circuito prestabilito e regolato drasticamente e senza scampo dal cosiddetto sight-seing: l’obbligo assoluto di fruire di un certo paesaggio, un certo monumento, una certa strada, un certo museo.

Secondo questo viaggiatore narciso e «in missione permanente per scovare, osservare, rispettare, preservare e salvare il mondo», il turista è solo uno spettatore passivo che finisce per banalizzare il mondo e profanare la gioia incommensurabile della scoperta geografica ed antropologica.

Ma anche queste idee del viaggiatore doc – chiarisce Urbain – sono appunto idee letterarie, e partono da una prospettiva che non fa i conti con la modernità e con cosa il turista e il turismo significano per la società contemporanea. Sono considerazioni che ignorano il fatto sostanziale che, se pure una differenza tra turista e viaggiatore persiste, questa può solo essere in grado, non di natura…

Qualunque cosa ne dicano le élites di ieri e di oggi, tra questi termini c’è in effetti una stretta “parentela”. Il turista, infatti, non è solo un girovago dalla vista corta o un nomade con i piedi piatti. Anche lui è un viaggiatore che non può rimanere sola espressione della massificazione delle vacanze. Anche lui ha contribuito a moltiplicare gli sguardi sul mondo nel quadro di una mobilità del tempo libero molto più vivace di una volta. Il turismo insomma è diventato un fenomeno della civilizzazione che ha generato un uomo nuovo: il turista, appunto, figlio del viaggiatore.

Questo processo letterario fatto al turismo va allora rivisto ed è già di fatto cominciato quando è nata la distinzione tra turista “cattivo” e turista “buono”. L’uno e l’altro, il turista buono e quello cattivo, hanno però in comune tante cose col viaggiatore di professione. Ed una in particolare. La necessità di fuga, di diserzione, di evasione; la voglia di rompere gli ormeggi, di comunicare, di raggiungere l’altrove, di dare fondo al nomadismo come straordinaria opportunità di decongelare l’identità, renderla problematica e aperta. E’ vero. Il turista in questa aspirazione va di fretta, e non fa caso ai suoi compagni di viaggio. Il viaggiatore (se mai ne esistono ancora) invece, si prende più tempo, perché porta con sé una patologia inguaribile: la cosiddetta sindrome di Armstrong, l’illusione del primo piede sulla luna, l’illusione di essere ancora il primo e l’unico a scoprire e ad inaugurare il mondo. Il turista, dunque, non è un idiota… E non ci tiene a rimanere semplice spettatore, parodia di un’esplorazione che non esplora niente. Ma anche se così fosse, è pur vero – come scrive Kuoni – che: «Se il Buddha di Sakhotai è immutabile, è il modo di vederlo che può cambiare. Se la Sfinge di Giza è immutabile, è il modo di vederla che può cambiare».

Roberto Messina

[1] Questo contributo è stato edito in forma ridotta nel 2000 per motivi di spazio.

premio 2000

autorità premio

 

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Anno 2001[1]

Santi di Calabria

Valenza culturale della santità

Nel concetto di cultura entrano a pieno titolo tutti i fenomeni antropologicamente rilevanti. A questi fenomeni appartiene certamente la dimensione religiosa dell’uomo.

Nella concezione cristiana la fede è dono di Dio e risposta dell’uomo. Essa si nutre della Parola del Signore, ma si fortifica con l’esempio di figure luminose come sono i santi. La santità, intesa come chiamata «alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità» è la vocazione della chiesa e di ogni cristiano.

Una delle dicotomie più laceranti di oggi è la separazione tra fede e vita. I santi, al contrario, hanno fatto sintesi tra fede e vita, dimostrando come la fede può diventare dinamismo intrinseco alla storia, incarnandosi nel contesto di ogni tempo e di ogni cultura, come lievito che li fermenta dal di dentro e che, senza identificarsi con nessuna cultura, ne costituisce l’orizzonte ultimo di senso.

[1] La brochure del 2001 si apriva con la motivazione del premio alla carriera attribuito ad Andrea Camilleri magistralmente redatta da Giuseppe Dall’Ongaro.

I santi hanno fatto e fanno cultura, introducendo modi di pensare e stili di vita conformi al Vangelo, in cui la carità e la speranza, impregnando di sé il presente, lo aprono al futuro, radicandolo nella memoria dell’evento salvifico in Cristo da cui scaturisce ogni novità autenticamente umana. La storia umana sperimenta, a livello personale e sociale, il male e, perfino, la barbarie. I santi sono “separati dal male” e, perciò, promotori di quei valori che rendono l’uomo più umano. Tutto ciò ha un’immediata valenza culturale e sociale.

I santi calabresi o vissuti in Calabria, con la loro ricchezza interiore, con la loro azione e con le opere che hanno creato, hanno inciso profondamente nella formazione dei valori strutturanti l’ethos calabrese, cioè quell’identità culturale, certo depredata dalla mafia, contaminata da apporti devianti di ieri e di oggi, ferita da tradimenti e da fughe, ma, tuttavia, dinamica e vitale, generatrice di storia con una sua precisa specificità.

Tutto ciò appare evidente nella prospettiva storica lunga, come nel caso di S. Nilo, S. Francesco di Paola o S. Bruno, ma anche in figure più vicine a noi, come nel caso del Beato Catanoso o di Don Mottola, solo per citare alcune delle figure qui ricordate.

La loro esemplarità straordinaria è un invito a riscoprire la santità come dimensione ordinaria della vita, attingendo la luce e la forza alla stessa fonte da cui loro l’attinsero. E’ la condizione per la creazione di un mondo riconciliato, divenendo così costruttori della pace e testimoni della speranza.

Natale Colafati

San Nilo da Rossano

Affascinante, dalla voce soavissima nel cantare le divine salmodie, intraprendente e fattivo in tutto ciò a cui si applicava, ma orfano dei genitori e di una guida spirituale. Questo è Nicola Maleinos nei primi decenni del secolo X, in una Rossano (dove era nato nel 910) che nel Tema bizantino di Calabria occupa una posizione strategica e civile notevole. Finché non irrompe l’ora della grazia: allora moglie e figlia, città e compagnie saranno piantate all’improvviso ed in modo irrevocabile per restare da solo con il “Solo”. Per oltre un decennio il Mercurion, la celebre eparchia monastica ai confini calabro–lucani, è cella e scenario di un impegnativo discernimento interiore e di una rigorosa applicazione eremitica. Preghiera, studio, trascrizione di codici greci in splendida e perfetta grafia, unitamente a penitenze inimitabili, segnano le giornate di questo tirocinio ascetico, che diventerà presto scuola per altri.

Discepolo di insigni maestri dello spirito, sarà riconosciuto ben presto, a sua volta, figura di riferimento di altri che cominciano a seguirlo: sono concittadini e di differenti classi sociali ma formati senza sconti da Nilo che, come ha cambiato nome, così comincia a cambiare dal profondo vite sinceramente attratte dall’Eterno. Stefano e Giorgio sono i novizi di una larga schiera, che progressivamente vorranno seguirlo e affidarsi alle sue cure. Non sono membri di un ghetto. Chi non vive vicino a Nilo, ma ne ha avuta l’eco di uomo eccezionale, tra curiosità e motivi d’interesse tra i più disparati – il desiderio per la vita consacrata, l’invocazione della salute, l’approfondimento di temi scritturistici ed etici – si reca da lui per conoscerlo e consultarlo. Sono personaggi di primo piano come l’Eunuco cubiculario dell’imperatore di Bisanzio o il giudice imperiale Eufrasio, il metropolita di Santa Severina e quello di Reggio e di tutta la Calabria Teofilatto, Leone il Domestico, il protospatario Nicola, lo stratilate Polieuto, con i seguiti che li accompagnano.

Vivi, comunque, risultano i rapporti con i figli del Popolo della Promessa e con quelli della Mezzaluna fertile: Domnolo Shabattai invano cerca di offrirgli la sua scienza medica per curarlo da una delle tante infermità – talora gravi – di cui soffre negli anni, ricevendone un diniego cortese ma fermo, indice eloquente della considerazione in cui tiene gli ebrei. In quanto ai seguaci del Profeta, i timori della loro ferocia devastatrice – già sperimentata da giovane dopo la celebre profezia del grande padre San Fantino, al Mercurion – si alterneranno con la stima dimostratagli da capi vicini o lontani come l’emiro di Palermo Abu el–Kasem.

Ha lasciato Rossano per seguire Dio, ma vi ritorna quando forte è invocato il suo aiuto o la pietà del cives lo spinge ad intervenire con la sua autorevolezza. Se il Magistros Niceforo Foca non sterminerà i temerari concittadini, che han prima costruito, poi distrutte le chelendie loro ordinate, lo si dovrà ad una raffinata diplomazia evangelica; se la notizia di un terribile terremoto lo fa accorrere trepido, alla scoperta che gli abitanti sono usciti indenni, si ritroverà in riconoscente preghiera dinanzi a quell’icona della Madre di Dio, davanti alla quale era stato portato e consacrato appena bambino dai pii genitori. Eppure non accetta di diventarne arcivescovo, né di fondarvi una chiesa ed un monastero. Lascerà, invece, per sempre la terra di Calabria per recarsi nell’altro impero, il Latino, dove longobardi, germani e romani saranno i nuovi popoli incontrati, soprattutto attraverso i loro capi. A Capua incontra il Principe Pandolfo Capodiferro, a Montecassino l’Abate Aligerno, a Vallelucio Sant’Alberto di Praga, a Gaeta i Duchi Giovanni III ed Emilia, a Roma il giovane Ottone III ed il Papa Gregorio V, inutilmente supplicati, questi ultimi, di avere pietà del monaco Filagato – anch’egli rossanese – caduto in disgrazia del partito pontificio che lo considera come antipapa – Giovanni XVI, il nome assunto – e lo perseguita con atroci e umilianti sevizie. Nilo non otterrà la grazia, ma cercherà di spingere al ravvedimento almeno l’imperatore. Le vie della vita l’hanno portato alle soglie della Città Eterna e a Grottaferrata, nel Tusculum di Cicerone, in un possedimento del principe Gregorio, su divina ispirazione della SS.ma Madre di Dio fissa la sua dimora, che diventerà il luogo del riposo eterno. E’ il 26 settembre del 1004, al tramonto: «…e con il sole tramontò il Sole», lapidariamente annota il devoto biografo, in quel celebrato testo dell’agiografia bizantina dell’XI secolo che con ampiezza di notizie e di particolari consegna ai posteri l’eredità di Nilo.

Bartolomeo – discepolo prediletto e, probabilmente autore della Vita Nili – svilupperà la lezione del Maestro. La Crypta ferrata si trasformerà in borgo e poi in suggestiva cittadina dei Castelli romani, sotto l’egida di solerti archimandriti egumeni e di cardinali commendatari. Resteranno, fedeli testimoni nei secoli, l’osservanza della regola monastica, l’amore per lo studio e per l’Oriente cristiano. Lo scisma del 1054 non reciderà questi legami con la patria dello spirito contemplativo. Né Nilo era rimasto da solo con il Solo. Evidenti segni dall’alto lo avevano quasi costretto a cambiare il suo stile eremitico in quello cenobico. Tutto ciò ancor oggi vive a prezioso anello di dialogo con le Chiese dell’Ortodossia. Una perla di grazia per continuare il fecondo pur se difficile cammino di dialogo tra Oriente e Occidente, nella Chiesa e nei mondi geografici del Mediterraneo, dell’Europa e del mondo, dove si ritrovano forti presenze e inalterate suggestive tradizioni, utili per insegnare a vivere nel rispetto e nelle integrazioni di civiltà per un futuro di pace e di serena convivenza.

 Francesco Milito

Un pellegrinaggio verso Dio.

Bruno di Colonia dalla Francia in Calabria

Il 6 ottobre 1101, come attestano senza incertezze le fonti dell’epoca, moriva in Calabria, nell’eremo di Santa Maria della Torre, Bruno di Colonia, già maestro e rettore della scuola della cattedrale di Reims ed iniziatore, sulle Alpi del Delfinato francese, dell’Ordine certosino. Bruno era, indubbiamente, uno degli uomini eminenti del suo tempo: intellettuale finissimo e dotto commentatore del Salterio, carico di onori e gloria per gli incarichi che ricopriva nella sede remense, aveva deciso, a un certo punto della sua vita, di separarsi dal mondo e di ritirarsi, con pochi compagni al suo fianco, in un deserto eremitico nel quale attendere unicamente alla contemplazione del Signore.

Erano anni difficili per la Chiesa di Roma: la lotta per le investiture e i tentativi di riforma dei costumi del clero ne scuotevano le membra, provocando divisioni profonde al suo interno ma suscitando, contemporaneamente, un’ansia di rinnovamento spirituale che aveva trovato nel monachesimo la forza più consapevolmente catalizzatrice. A partire dagli inizi del X secolo, infatti, con la fondazione dell’abbazia di Cluny, cominciava a sorgere quel movimento monastico di “specialisti della contemplazione”, che, pur nella diversità delle scelte individuali e nelle differenti forme assunte da ciascuna esperienza, condivideva il comune obiettivo dell’unione con Dio nella preghiera. La Chaise–Dieu, Molesme, Grandmont, la Sauve–Majeure in Francia; Camaldoli, Fonte Avellana, Vallombrosa in Italia; Hirsau in Germania, sono i luoghi più noti in cui, nel tempo storico di Bruno di Colonia, uomini interamente dediti a Dio avevano edificato un deserto interiore del quale l’isolamento geografico degli eremi rappresentava la proiezione visibile ed esterna. Si tratta, come si diceva, di esperienze diverse, che in alcuni casi recuperavano aspetti dell’eremitismo antico, nel tentativo di dare forma ad un modello di vita ad imitazione della chiesa primitiva.

La prima Certosa nacque in Francia nel 1084 in un luogo – situato in mezzo alla foresta a 1.175 metri di altezza – detto Casalibus, per richiamare le capanne di tavole nelle quali si erano sistemati i primi compagni di San Bruno. E’ un luogo inospitale, isolato, povero, a cui si accede soprattutto per una stretta gola – La Cluse – racchiusa da due pareti rocciose. Alla scarsa generosità della natura circostante si accompagna l’asperità del clima. Spesso piove, d’inverno le nevicate sono così abbondanti che, nell’intera stagione, il manto nevoso supera i quattro metri d’altezza e la vallata rimane, talvolta isolata rispetto all’esterno. Una condizione difficile, ma una condizione adatta per chi vuole condurre vita eremitica lontano dai rumori del mondo, al riparo dalle agitazioni del secolo.

Rispetto alle forme monastiche coeve la spiritualità di San Bruno si orienta in maniera ancor più vigorosa verso la scelta eremitica, temperando, tuttavia, la sua austerità con l’introduzione di momenti di vita in comune che hanno il compito, al tempo stesso, di rendere meno “severa” la solitudine e di consentire ai monaci, quello scambio fraterno senza il quale rimarrebbero sconosciuti l’un l’altro. Questa prima esperienza dura sei anni, finché papa Urbano II – già suo allievo nella scuola di Reims – non chiama Bruno a Roma per farsi aiutare negli affari ecclesiastici. «Ma non potendo sopportare il tumulto e il modo di vivere della Curia – racconta l’importante Cronaca Magister – ardendo d’amore per la quiete e la solitudine perdute, lasciata la Curia ed anche l’Arcivescovado della Chiesa di Reggio, al quale era stato eletto per volontà del papa, si ritirò in un eremo della Calabria chiamato La Torre, e lì, riuniti in gran numero chierici e laici, realizzò il suo progetto di vita solitaria per il resto dei suoi giorni […]».

Dalla Francia, il pellegrinaggio di Bruno, nello spazio geografico e nella sua stessa anima, era, alla fine, approdato all’estremo lembo dell’Italia meridionale, dove, proseguendo il cammino del loro fondatore, ancora oggi i certosini sono testimonianza vivente della ricerca di Dio nel silenzio del deserto.

Tonino Ceravolo

«e lucemi dallato/il calavrese abate Giovacchino/di spirito profetico dotato»

Dante rileva icasticamente, attraverso le parole che fa pronunciare a Bonaventura da Bagnoregio (Dante, Paradiso XII, 139–141), la caratteristica più significativa di Gioacchino da Fiore. Personalità affascinante e controversa. Gioacchino godette di notevole fama per risonanza che ebbero la sua vita e il suo pensiero.

Non abbiamo notizie precise sui primi anni di vita dell’abate. Sappiamo che nacque a Celico (Cosenza) probabilmente intorno al 1130 e che si recò a Gerusalemme. Entrò nel monastero cistercense di Sambucina, presso Leuzzi, tra il 1150 e il 1155 e, successivamente fu ordinato sacerdote durante il suo soggiorno nell’abbazia di S. Maria di Corazzo, di cui fu abate dal 1177.

Abbiamo qualche notizia dei suoi spostamenti: pare che si sia recato a Veroli nel 1184 dal papa Lucio III per ottenere il permesso di incominciare a esporre per iscritto le sue dottrine. Il contemporaneo Luca da Cosenza, che ebbe modo di incontrare Gioacchino a Casamari, conferma questo particolare, considerato veritiero da uno dei maggiori studiosi dell’Abate, il Tondelli e negato dal Buonaiuti altro fondamentale studioso del monaco. A Casamari, Giacchino scrisse la Concordia Veteris et Novi Testamenti, il Psalterium decem chordarum, l’Expositio in Apocalypsim.

Entrato in conflitto con il suo Ordine, a causa dei suoi ideali di vita e delle sue dottrine, lasciò l’abbazia di Corazzo (c. 1191) e, dopo un soggiorno nell’eremo di Pietralata, fondò a San Giovanni in Fiore, una nuova congregazione che fu riconosciuta da Celestino III. A Costanza, nel 1195 e nel 1198, ottenne per la sua abbazia dei privilegi da Enrico IV; e questo nonostante fosse più vicino al Papato e ai Normanni.

Prima della sua morte, pare che abbia dettato una lettera, contenente il suo testamento spirituale, a Luca da Cosenza, conosciuta poi come Testamentum e considerata apocrifa da alcuni studiosi del suo pensiero. Morì nel 1202 nel monastero di S. Martino di Canale.

L’ordine gioachimita conobbe una notevole espansione e le reliquie di Gioacchino furono oggetto di venerazione; nel Concilio del Laterano del 1215 e in occasione del Protocollo di Anagni del 1255 le dottrine dell’Abate vennero condannate. In ogni caso, quando il Concilio Lateranense condannò la dottrina trinitaria, si limitò a censurare il De unitate seu essentia Trinitatis contro Pietro Lombardo; in questa occasione si ricordava che la condanna non riguardava l’ordine florense e che Gioacchino, anche nel suo testamento, ribadiva la sua sottomissione alla Chiesa.

Gioacchino, più che essere interessato alla metafisica e alla gnoseologia, si attestava su posizioni moralistiche assai diffuse in quegli anni; per questa ragione gli studiosi moderni (Buonaiuti in particolare) ritengono che Gioacchino non può essere considerato un eretico per la sua interpretazione del dogma trinitario. L’umanità si evolve, secondo Gioacchino, in tre tempi successivi corrispondenti alla triplice manifestazione della Trinità, per cui il Padre si manifesta nella prima età, il Figlio nella seconda, lo Spirito Santo nella terza, che sarebbe iniziata intorno al 1260 con la venuta dell’Anticristo, successivamente sconfitto così da realizzare l’amore universale tra gli uomini. I presagi della terza età, ormai imminente, possono essere individuati nel Vecchio e Nuovo Testamento.

La nascita di nuove abbazie, formatesi in relazione alla riforma cistercense, è direttamente legata alla diffusione del messaggio profetico gioachimita e alla necessità di una realizzazione di una vita monastica più attenta ai valori della spiritualità, lontana da qualsiasi prospettiva mondana. Quest’ultimo aspetto si ricollegherà al francescanesimo e in particolare agli “spirituali” dell’Ordine francescano, con i quali i seguaci di Gioacchino ebbero contatti. A questo proposito vanno ricordati Ubertino da Casale e Giovanni Olivi che insegnarono a S. Croce, a Firenze, dove Dante ebbe modo di conoscerli. Ubertino insegnò nel periodo in cui l’Alighieri iniziò ad occuparsi di filosofia (Convivio II, XII 7). Se deve essere negata una correlazione diretta tra Dante e il gioachimismo, non si può tacere l’interesse dell’Alighieri per il pauperismo spirituale. Il verso di Dante di spirito profetico dotato è riferito a quanto si raccontava di Gioacchino in ambiente florense perché il poeta non ebbe una conoscenza diretta delle opere di Gioacchino. A margine di questa considerazione, è necessario ricordare che il Liber figurarum, ripubblicato da L. Tondelli, la cui attribuzione a Gioacchino è fortemente contrastata, costituisce secondo il suo moderno editore (ma non per il Barbi e il Petrocchi) una fonte della Commedia.

Rossana Caira Lumetti

Francesco di Paola ed il suo messaggio sociale

Francesco è perenne forza che trascina: ha profuso senza sosta la sua carità in mezzo al popolo ammirato e devoto, ha impresso nella storia dell’umanità immagini testimonianti atti d’amore, incancellabili, compie il miracolo vivente che è forza visibile di rinascita delle conoscenze.

Il segreto di Francesco è la pace, quella sociale, anzitutto. Egli spiega la sua azione generosa nel sociale, preso da quel purissimo spirito francescano che assimila con la fresca innocenza del fanciullo quando dodicenne, portato per la sua scelta nel convento di S. Marco Argentano, diventa un francescano piccolo: un minore così piccolo da sentirsi “spontaneamente minimo”.

L’amore per le creature Francesco lo traduce in impiego di richiamo morale e civile ai potenti e di difesa dei deboli, per affermare la dignità assoluta della persona umana.

La forza della carità–amore è la molla della sua azione; l’amore–carità come vincolo di perfezione, secondo l’assunto paolino.

La santità nasce dall’amore e Francesco la fa sua divenendo presenza operante a rendere giustizia. Nel colloquio con Dio, macerandosi nella penitenza e nelle privazioni, riesce ad impossessarsi del mistero e del potere di Dio!

Figlio della povertà grama, nato in una realtà misera oberata di vessazioni, Francesco ama i deboli e la sua santità diventa socialità: l’attualità del Suo messaggio sta nella permanente freschezza della Sua lezione; la santità si manifesta nell’essere paladino di Giustizia ispirato da Dio, in un’epoca di prepotenza e di soprusi.

Vive nella forza prorompente della Carità: la Sua Carità è respiro universale che agogna e persegue un mondo di giustizia e di pace.

Da Paola a Paterno invia missive di fuoco al re di Napoli per condannare vessazioni regali e baronali e dissolutezze della corte proterva ed arbitraria, infiacchita da pigrizie e corruttele.

E’ anche animatore di riforme sociali. Scrive al re: «Io non tralascio giorno alcuno senza pregare Dio per la santità di vostra maestà e di tutti i vostri buoni alli quali io desidero mille benedizioni sotto il vostro regno, il quale io vi prego di formare per l’integrità di vostra vita verso Dio, per la Giustizia verso i vostri soggetti, poiché questi sono le due colonne degli imperi e delle monarchie». Il richiamo a Dio ed alla giustizia!

La socialità del Suo messaggio è in questa aspirazione: in queste due parole si racchiude la linea del suo disegno per la società e si definisce, animata dal senso cristiano della carità. Dio e Giustizia sono gli “imperi” cui guarda Francesco. La socialità è la Sua “politica”, mentre l’architettura della Sua opera si sostanzia di cose comuni, di vita povera ed austera, di comunione con la gente, di fermezza e di fede.

In ciò si compendia la costruzione della coscienza nuova per poter rendere la realtà umana consona al valore del cielo, per santificare la vita di questo mondo. Fede, umiltà, carità si saldano armoniosamente in un equilibrio santificante.

Il popolo cristiano continua a credere in Francesco taumaturgo, fonte di speranza: è questo il segno indissolubile che la santità come aspirazione di pace è dentro l’interiorità più profonda e più vera di ogni creatura.

Francesco resta onda permanente di speranza per gli uomini che soffrono e credono, punto di saldatura tra il Medioevo del Mezzogiorno e le conquiste umane della contemporaneità.

Per questo Egli si innalza a simbolo e speranza di riscatto del sud del mondo; ed il riaccostarsi a Lui è salutare per l’anima inquieta ed inappagata dell’uomo di oggi, per sostanziarsi di valori eterni che appartengono alla persona–creatura di Dio.

Rosario Chiriano

Il beato Umile da Bisignano

E’ nato a Bisignano (Cosenza) il 26 agosto 1582. Al battesimo riceve il nome di Luca Antonio. Fin dalla fanciullezza vive una intensa vita di pietà partecipando alla Messa ed alla santa Comunione. Vive la sua vita nel duro lavoro dei campi e la sua meditazione prediletta è la passione del Signore. Si iscrive alla confraternita dell’Immacolata ed osserva fino allo scrupolo quanto viene indicato dagli ordinamenti. Vive il Vangelo alla lettera; dai processi canonici per la sua beatificazione abbiamo la testimonianza che, schiaffeggiato in pubblico, porge l’altra guancia. Vive con profonda partecipazione tutte le espressioni tipiche della pietà popolare e le porta ad un livello altissimo.

A diciotto anni sente viva nel suo cuore la chiamata di Dio alla vita religiosa; ma per difficoltà deve aspettare ben nove anni prima di realizzare il suo sogno.

Di fronte agli ostacoli aumenta il suo impegno vivendo con maggiore generosità la sua vita cristiana ed aumentando le austerità.

A ventisette anni finalmente riesce ad entrare nel convento delle pigne di Misuraca dei Frati Minori per il suo noviziato; la sua cattiva salute pone diverse perplessità per la sua accettazione alla professione religiosa come frate laico. Superate però tutte le difficoltà fa la sua professione religiosa il quattro settembre del 1610 assumendo il nome di fra Umile.

Egli rimane sempre analfabeta e viene ricordato come piuttosto tardo di ingegno, ma nonostante questi limiti gode di tanti doni soprannaturali; viene chiamato “il frate estatico” per le sue continue estasi che dopo il 1613 diventano pubbliche. I suoi superiori lo sottopongono a continue prove ed umiliazioni per assicurarsi che non vi siano inganni. Fra Umile supera tutto felicemente e così aumenta la sua fama di santità.

Mostra un’acutezza straordinaria anche in questioni di alta teologia di fronte ad insigni docenti di Cosenza e di Napoli. Il generale del suo ordine vuole la sua compagnia per la visita canonica ai Frati Minori della Calabria e della Sicilia. Gli stessi papi Gregorio XV e Urbano VIII lo chiamano a Roma ed amano intrattenersi con lui. Egli vive nella città eterna per diversi anni nel convento di S. Francesco a Ripa di Trastevere.

Nel 1628 chiede di potersi recare come missionario nei paesi non cristiani; gli viene negato il permesso ed egli continua la sua vita di semplice frate laico vivendo nell’orazione continua. Un giorno gli viene chiesto che cosa chiedesse a Dio in tante ore di orazione; egli risponde: «Io non faccio altro se non che dico a Dio: “Signore, perdonami i miei peccati e fa che io ti ami come sono obbligato ad amarti; e perdona i peccati a tutto il genere umano, e fa che tutti ti amino come sono obbligati ad amarti!”». A Gregorio XV confida che si ritiene un grande peccatore e domanda un luogo nel quale possa vivere nel più assoluto nascondimento.

Negli ultimi anni della sua vita ottiene di ritornare nella sua Calabria e a Bisignano, sua terra natale, muore il 26 novembre 1637. Viene beatificato da Leone XII nel 1882; si è in attesa della canonizzazione.

Il beato Umile è un personaggio in profonda sintonia con la vita cristiana della gente comune che vive nelle angustie e nelle miserie della vita quotidiana, ma ha una grande sete di Dio e desidera sentire Dio vicino alla sua vita. La pietà cristiana ha profonde esigenze di idealità, di verità, di bontà, di virtù; tutto questo non in espressioni astratte ma ama incontrare i suoi ideali negli altri esseri umani, vissuti nelle miserie e sofferenze, che però sono state capaci di trasformare ogni esperienza umana in serena speranza. Dalla devozione a questi santi sorge nella pietà popolare un senso di gioia e di speranza che supera radicalmente il senso della sfortuna e del destino e li tramuta nella fede nella provvidenza di Dio in un senso vittorioso di speranza; è da questa gioia che nasce l’esigenza della festa in senso religioso. Il beato Umile è una finestra aperta verso il cielo dalla quale irrompe la luminosità dello splendore di Dio e della Pasqua del Signore.

Maffeo Pretto

Tommaso Campanella, filosofo e poeta rivoluzionario

Nel definire Tommaso Campanella filosofo e poeta rivoluzionario, bisogna prestare molta attenzione, poiché il termine rivoluzionario potrà assumere valore semantico bivalente. Non sono incline a trattare la qualifica di rivoluzionario spesso attribuita al Campanella per avere presumibilmente partecipato o organizzato moti politico–militari. Per chi scrive, Tommaso Campanella è un grande filosofo, promotore e innovatore della filosofia e della poesia. Se mi dovessi soffermare ad esaminare la presunta azione contro gli spagnoli, non potrei motivare la nuova fase di riflessione filosofica che suscitò tanto interesse nei responsabili della Chiesa di Roma e nell’elemento politico del tempo rappresentante il braccio destro del potere ecclesiale. Considero, invece, Tommaso Campanella rivoluzionario, perché aveva posto nel campo della riflessione filosofica due aspetti importanti, destinati ad influenzare la produzione filosofica, attribuendo a soggetto dell’una e dell’altro l’umano, conformemente alla valutazione avanzata, nei confronti dello stesso, dall’Umanesimo.

Tutto ciò implicava una conseguenza preoccupante nel campo dell’ortodossia cristiana per traslazione della riflessione dalla teologia all’ontologia. Queste fondamentali figure della filosofia ufficiale implicarono il processo, il metodo da deduttivo ad induttivo. L’autocoscienza non è la coscienza soggettiva, cioè l’anima secondo la visione teologica agostiniana. Possibilità conoscitiva elargita da Dio sin dal momento del concepimento dell’essere umano, con significazione della presenza del divino nell’uomo, il quale poteva procedere alla scoperta della verità mediante altro contributo divino che era la Grazia. L’autocoscienza detiene due fondamentali valori: possibilità di conoscenza di sé, soggettiva e conoscenza di sé oggettiva, la cui identificazione determina la conoscenza particolare e universale. Il soggetto conoscente non deve “entrare” solo in sé per scoprirvi il vero, ma deve volgere lo sguardo anche fuori di sé al mondo del fenomeno. A questo fine, è dotato dei mezzi necessari per conseguire la conoscenza totale: sensi e qualità primarie dell’autocoscienza: amore, sapere, potere. Queste qualità permettono al soggetto di stabilire rapporti costanti col mondo fenomenico e col mondo dello spirito, poiché questi elementi sono universali, in quanto presenti non solo in natura: senso–spirito, ma anche nel fondamento. Il processo, di conseguenza, implica un’attività dal particolare all’universale; dal mondo a Dio e dall’universale al particolare, da Dio al mondo. Senso e autocoscienza permettono al soggetto di realizzare una corretta sintesi conoscitiva generale: senso–autocoscienza–Dio e, di conseguenza: Dio–autocoscienza–senso.

Tutto ciò offendeva la dignità della teologia, propria della Patristica e della Scolastica, poiché la preminenza nel problema del conoscere era dell’ontologia, propria del pensiero aristotelico–campanelliano, facente tramite Telesio. La Chiesa cattolica non poteva tollerare o avallare quel capovolgimento di metodo e di concetto che permetteva o riconosceva all’uomo un’autonomia di giudizio, indipendentemente dal concetto di “grazia” e di “illuminazione”. Questi i motivi fondamentali per i quali l’autore di tanto misfatto doveva essere posto nelle condizioni di tacere. Ma questi sono anche i presupposti che permisero al Campanella di condizionare tutta la produzione filosofica successiva, in quanto presente nell’Empirismo, nel Razionalismo prima e nell’Idealismo dopo. Questi i fondamentali motivi, per cui Tommaso Campanella può essere considerato un grande rivoluzionario nel campo della filosofia.

E non fu di meno nel campo letterario, nel quale riuscì a compiere la sintesi totale dell’essere. Con la sua poesia, detta filosofica, condusse all’unità tutte le facoltà umane: senso, coscienza, razionalità, ragione, sentimento, creatività, fantasia e affettività. Il fattore fondante di tutte le facoltà umane è l’autocoscienza che è intesa come struttura in cui i valori s’incontrano, si qualificano e si integrano, divenendo pensiero sotto forma di concetti e di giudizi. Ecco perché Campanella potrebbe essere considerato il più importante poeta del suo tempo.

Giosué Salvatore Ciccia

Antonio Lombardi

Il Servo di Dio Antonio Lombardi nacque a Catanzaro il 13 dicembre 1898 da Nicola e Domenica Lombardi. Il padre, affermato uomo politico a livello nazionale, era vicino alle tendenze massoniche presenti in città. La madre era donna molto religiosa. Al termine degli studi liceali, si laureò in Legge a Roma vivendo in uno stato di indifferenza religiosa.

Una serie di avvenimenti, però, sul finire della sua giovinezza, ne segnarono definitivamente il percorso. Il primo episodio è legato ad una malattia cardiaca risalente agli anni 1926–1927, i cui postumi lo accompagnarono per tutta la vita. Durante la malattia e la convalescenza, ebbe modo di conoscere e di affezionarsi a Teresa Mussari, una giovane di modeste condizioni sociali, ma che nutriva una fede molto forte. Fu un’amicizia intensa che lo aiutò a ritrovare un genuino sentimento religioso. La morte improvvisa della giovane portò a compimento la svolta interiore del Lombardi che culminò nel 1932 in una piena adesione al Vangelo. In conseguenza di ciò abbandonò lo studio legale del padre.

Da allora si dedicò allo studio della storia della filosofia e si accostò anche alla tradizione filosofica e religiosa dell’Oriente. Il primo frutto di tale ricerca fu l’opera La critica delle metafisiche (Bardi, Roma, 1940), che lo fece conoscere a tutto il mondo filosofico. A questa prima fatica seguirono altri pregevoli studi. Nei suoi testi filosofici si trova una serrata critica di ogni forma di materialismo o di storicismo ed una forte difesa dei valori della trascendenza. La notorietà in campo filosofico crebbe a tal punto che i suoi interventi vennero accolti sull’Osservatore Romano. Nel suo epistolario figurano i nomi dei più illustri pensatori del tempo.

Molto vivace fu anche l’impegno in campo sociale. Partecipò alla vita dell’Azione cattolica diocesana, di cui fu nominato Presidente degli uomini nel 1941. Il principale obiettivo fu quello della formazione delle coscienze. Rimasero famosi i suoi cicli di conferenze sulla dottrina cristiana. Il forte desiderio di favorire la crescita culturale dei giovani si concretizzò nella creazione di un centro di ricerca detto Novum Studium. Si adoperò anche per la realizzazione di un periodico locale dal titolo L’idea cristiana.

Fu inoltre sempre attento a coniugare l’impegno culturale con l’attenzione agli ultimi. Durante il periodo fascista per la posizione di prestigio che godeva nella città aiutò molti che erano in difficoltà con il regime, pur essendo lui dichiaratamente antifascista. Progettò nel rione Bellavista di Catanzaro un ospizio per ciechi; si impegnò nella difesa coraggiosa dell’orfanotrofio cittadino; diede anche un consistente appoggio all’avvio dell’opera “In Charitate Cristi” (oggi “Fondazione Betania”).

La precoce morte, avvenuta il 6 agosto 1950, gli impedì di portare a termine i suoi progetti. Ma l’esemplarità e la santità furono subito avvertite dagli amici e dai conoscenti, i quali, il 9 maggio 1954, vollero ricordarlo con una pubblica manifestazione, durante la quale una lapide fu scoperta sul muro della casa paterna in Largo Sant’Angelo in Catanzaro.

Monsignor Antonio Cantisani, Arcivescovo di Catanzaro–Squillace, il 14 settembre 1999, con il parere favorevole dei vescovi della Regione Episcopale Calabra e il Nihil obstat della Santa Sede, ha introdotto la causa di canonizzazione del Servo di Dio Antonio Lombardi.

Armando Matteo

Il Beato Gaetano Catanoso, padre degli ultimi

Il beato Gaetano Catanoso (1879–1963) è nato e vissuto nella diocesi di Reggio Calabria, dove ha svolto il suo ministero sacerdotale a partire dalla realtà povera di Pentadattilo, rimanendovi per 17 anni. E’ stato qui che verosimilmente ha fatto le scelte che avrebbero improntato tutta la sua vita. Fu poi parroco della Candelora, svolgendo contemporaneamente il ministero di cappellano delle carceri e dell’ospedale, padre spirituale del seminario e di canonico penitenziere (confessore) della Cattedrale di Reggio Calabria, toccando con mano le realtà umane più degradate e sofferenti e meritando, per l’amore e la dedizione con cui l’ha fatto, il nome di padre degli ultimi, poiché ha sempre privilegiato i più deboli, i miseri e gli emarginati.

Questa paternità lo ha portato a fondare le Suore Veroniche, poiché aveva preso molto sul serio l’affermazione di Gesù che qualsiasi cosa avremmo fatto al più piccolo dei suoi fratelli, l’avremmo fatta a lui. Come la Veronica del Vangelo asciugò il volto insanguinato sulla via del Calvario, così P. Catanoso e le sue Suore Veroniche hanno asciugato e asciugano i volti insanguinati dei crocefissi della storia, lungo il loro calvario morale, spirituale e materiale, consolando le solitudini.

Umile e paziente, accoglieva tutti con un sorriso illuminante, ma non sono mancate prove ardue nella sua vita, come la delazione e la diffidenza. E’ stato derubato, minacciato, sputato e preso a sassate, ma con l’amore ed il perdono ha conquistato i suoi avversari. Gli uomini come lui, animati dalla mitezza e dalla forza evangelica, sono quelli che cambiano la storia, divenendo punto di riferimento anche dopo la loro morte.

Il Papa, Giovanni Paolo II, il 4 maggio 1997, ha detto: «Padre Gaetano Catanoso ha seguito Cristo sulla via della Croce, facendosi con lui vittima di espiazione per i peccati. Ripeteva spesso di voler essere il Cireneo che aiuta Cristo a portare la croce, gravosa più per i peccati che per il peso materiale del legno.

Vera immagine del Buon Pastore, egli si prodigò instancabilmente per il bene del gregge affidatogli dal Signore nella vita parrocchiale come nell’assistenza agli orfani ed agli ammalati, nel sostegno spirituale ai seminaristi ed ai giovani preti come nell’animazione delle Suore Veroniche del Volto Santo da lui fondate.

Nutrì e diffuse una grande devozione al Volto insanguinato e sfigurato di Cristo, che egli vedeva riflesso nel volto di ogni uomo sofferente. Tutti coloro che lo incontravano, percepivano nella sua persona il buon profumo di Cristo. Per questo amavano chiamarlo “padre”, e tale lo sentivamo realmente poiché egli era un segno eloquente della paternità di dio».

Gianni Latella

Francesco Mottola: l’amore per Cristo e per gli umili

Il servo di Dio Don Francesco Mottola è nato a Tropea il 3 gennaio 1901. All’età di dieci anni entrò a far parte del seminario diocesano dove rimase fino al compimento degli studi ginnasiali per recarsi successivamente a Catanzaro per il liceo e la teologia. Fu ordinato sacerdote il 5 aprile 1924.

Ebbe una vita sacerdotale intensa e feconda: per il suo impegno orientato alla santità, per la sua promozione culturale e per la fondazione degli Oblati e delle Oblate e delle Case della carità.

Da sottolineare la sua “calabresità”. Testimonianze autorevoli presentano Don Mottola in questi termini: «è stato mosso da due amori, Gesù Cristo e la Calabria con la sua gente sofferente, ingiustamente umiliata per secoli». Un amore non retorico ma impegnato per la sua terra.

Va rimarcata la sua personalità sotto il profilo sacerdotale e culturale: un sacerdote, Don Mottola, fedele al proprio ideale per il quale non ebbe soltanto l’entusiasmo degli inizi, anzi il suo entusiasmo, la sua passione per il sacerdozio ministeriale sono andati crescendo per la forte coscienza del binomio inscindibile tra santità e vita presbiteriale.

E’ stato della schiera privilegiata di quei preti che hanno coniugato il carisma del sacerdozio e la missione pastorale svolta in mezzo al popolo di Dio.

C’è un pensiero nel servo di Dio, una sua visione della storia, un patrimonio ideale e culturale attinto nello studio di San Paolo, di Sant’Agostino, di S. Tommaso, di Rosmini e del Magistero della Chiesa e reso sintesi del suo mondo interiore, della sua mente che si è espressa in scritti rilevanti come Itinerarium mentisFaville della lampada e Diario dello spirito. Nell’Itinerarium mentis ne sono tracciati il cammino esistenziale e il traguardo ultimo: «è il fine che tutto avvalora: conoscere il tutto per il Tutto, amare tutto per il Tutto, servire tutti per il Tutto. E’ questa la ragione delle nostre azioni. E’ l’itinerario sacro di tutta la nostra vita povera e grande, di questa immensa grandezza: tutto per l’uomo ma l’uomo per Dio. Il resto fuori dalla nostra meta non ha valore, e perciò non ci appaga».

Vi affiora in questo brano l’umanesimo cristiano che comprende la centralità dell’uomo, la sua signoria sul creato e il primato di Dio, Alfa e Omega del cosmo e della storia.

E’ anche attuale il pensiero di Don Mottola, che richiama la posizione culturale di Emanuele Monier sulla persona, fatta risaltare nella sua accezione più compiuta dal cristianesimo.

Faville della lampada: è una raccolta di pensieri rivolti soprattutto alla famiglia oblata, mentre il Diario dello spirito rispecchia il cammino di un’anima protesa verso la santità sacerdotale. Il servo di Dio si è distinto nella ricerca di Cristo e nei riferimenti a Lui c’è come un pathos che lo coinvolge, che coinvolge la sua anima, la sua fede, la sua umanità.

«Cristo è tutto per noi»: quest’affermazione di Sant’Ambrogio la riporta nei suoi scritti ma soprattutto si impegna a viverlo nell’esperienza quotidiana. Il suo messaggio s’incentra sull’amore a Cristo, alla Chiesa, alla cultura e alla Calabria.

Vincenzo Rimedio

premio 2001

premio 2001 - 2

 

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Anno 2002

Donne del Mediterraneo[1]

[1] La brochure del 2002 si apriva con un intervento di Vincenzo Iuffrida che qui riportiamo integralmente: «Siamo giunti alla sesta edizione del Premio letterario e saggistico internazionale Feudo di Maida e alla pubblicazione della sesta brochure che annualmente inviamo con piacere ai vincitori, ai finalisti, alle autorità e ad un pubblico sempre più numeroso, come invito a presenziare alla nostra manifestazione e come spunto per riflettere e per discutere temi di sempre più ampio respiro e di sempre più stringente attualità. In occasione delle prime edizioni di questo lavoro abbiamo invitato alcuni studiosi a scrivere degli interventi che riuscissero, nel breve spazio di una sola pagina, a condensare un aspetto significativo della Calabria, e in particolare del territorio del Feudo di Maida, che chiarissero i motivi del radicamento di questo Premio nel territorio del Feudo, che mostrassero aspetti inediti o poco conosciuti di questa terra, che spingessero il lettore ad una riflessione sulle sue potenzialità. In seguito, con la quarta brochure, in coerenza con l’apertura mediterranea che il Premio stava promuovendo, abbiamo deciso di dilatare gli orizzonti tematici: la Calabria è stata posta al centro di una dialettica mediterranea e internazionale. I contributi di studiosi di altissimo livello internazionale, che hanno prodotto dei “cammei” inediti sulle intricate relazioni tra la Calabria e il Mediterraneo, ci hanno incoraggiato ad imboccare percorsi inconsueti e originali. L’anno scorso la brochure partiva dal mondo della religiosità calabrese per spaziare su tematiche di levatura universale. Quest’anno il contenuto degli interventi si lega per molti versi a quello delle ultime due edizioni. Il Mediterraneo, infatti, fa da sfondo alle vicende narrate, alle esperienze vissute, alle realtà analizzate che hanno come centro le donne, quelle di un’altra religione: l’Islam. Donne con le quali la nostra società si sta confrontando sempre più da vicino per via della crescente immigrazione e del crescente interesse verso altre realtà mediterranee. In quest’ottica abbiamo cercato studiosi di riconosciuto valore che sapessero suscitare interesse e interrogativi nelle coscienze di tutti. Ci auguriamo che l’intento sia stato raggiunto».

Una rassegna di studi sulle donne del Mediterraneo

Apre questa breve serie di preziosi contributi Salvatore Speziale, studioso di Storia del Mediterraneo. Il suo intervento, dal titolo Le donne e l’islam: campi di studi in fermento, offre una panoramica sui problemi di interpretazione più salienti e sulle tematiche più ricorrenti nel panorama bibliografico esistente. Un panorama che si arricchisce con straordinaria rapidità proprio in questi ultimi tempi, durante i quali la sete di conoscenza sul mondo musulmano ha raggiunto l’acme in Italia, con grande ritardo rispetto ad altri paesi europei quali la Francia e l’Inghilterra.

L’intervento di Annalisa Frisina, studiosa di processi interculturali, dal titolo Dialogo silenzioso, coglie uno degli aspetti più drammatici dell’essere donna in uno degli angoli del mondo più martoriati dalla guerra. Il dramma della donna palestinese di fronte alle continue distruzioni, alle continue manifestazioni di violenza e di sopraffazione viene rappresentato attraverso un dialogo tra una donna palestinese e una donna italiana. Il teatro del dialogo è Ramallah nel 2002: un luogo che recentemente ha acquistato la potenza del simbolo nella coscienza della collettività arabo–musulmana.

Ed è ancora la sopraffazione e la sofferenza il filo che collega il contributo di Frisina a quello di Mirella Galletti, docente di Storia del Vicino e Medio Oriente: Donne Curde. Donne che vengono fatte risaltare per il loro carattere, la loro bellezza, la loro presenza attiva nel tessuto sociale e politico di quel popolo costretto a vivere, o meglio a sopravvivere, diviso più stati (principalmente Iraq, Iran, Turchia e Siria) da barriere artificialmente costruite dall’uomo nel corso dello scorso secolo.

Le condizioni di vita delle donne musulmane legano insieme gli altri contributi di questa pubblicazione. Jolanda Guardi, docente di Lingua araba, tocca, con il suo intervento dal titolo Musulmane e femministe, alcuni temi di forte attualità: quello della diversità delle condizioni di vita della donna nei paesi del mondo musulmano, quello del suo margine di azione politica e culturale, e in particolare quello della possibilità di agire in funzione del riconoscimento di una maggiore equità di genere all’interno dell’islam.

La condizione della donna immigrata in Italia, il suo tentativo di mantenere i rapporti con il paese di provenienza, di documentare la propria esperienza quotidiana di migrante e di educare i propri figli al rispetto delle tradizioni sono al centro del contributo: Le donne immigrate egiziane al centro di un nuovo spazio televisuale: scambi culturali tra l’Europa e il Mondo Arabo. Si tratta dell’indagine di Paola Schellenbaum, antropologa culturale, che mette in luce un’operazione culturale che si avvale dell’utilizzo dei più moderni strumenti di comunicazione (videolettere in VHS, e–mail, trasmissioni televisive satellitari).

Sempre la donna immigrata musulmana è al centro dell’intervento di un’altra antropologa, Ruba Salih, dal titolo Le donne migranti e la ridefinizione dello “spazio Mediterraneo”. In questo lavoro la visione del viaggio della donna musulmana dal sud al nord del Mediterraneo scardina la classica dicotomia fra tradizione, il sud, e modernità, il nord, per assumere un carattere transnazionale, per caratterizzarsi come sfida alle barriere e ai confini fisici e culturali che contraddistinguono i paesi intorno al Mediterraneo.

La prospettiva islamica sulla donna è il titolo del contributo di Ahmad ‘Abd al–Waliyy Vincenzo, responsabile giuridico della Comunità Religiosa Islamica Italiana. Il suo contributo presenta una visione della donna nell’islam lontana da quella più comunemente presentata dai mezzi di comunicazione di massa e da quella proposta dal radicalismo islamico. Il suo interesse risiede quindi anche nell’indicare la notevole varietà delle posizioni presenti nel mondo musulmano su una questione tanto delicata e dibattuta.

Porta invece ad una realtà solo in apparenza del tutto estranea a quella descritta negli interventi precedenti il contributo Donne d’Aspromonte di Domenico Gangemi. Lo sguardo dello scrittore riesce a cogliere e a denunciare in maniera inattesa e per questo densissima di significato due mondi: quello dell’Aspromonte e quello dell’Afghanistan. Le donne viste a Polsi, secondo le sue parole, «mi hanno fatto venire in mente il burka che copre carni, capelli e persino gli occhi delle afgane. Le donne viste a Polsi non lo indossano. Ugualmente, però, spiano il mondo da piccoli spiragli furtivi, hanno i ristretti orizzonti dell’occhio di un padrone… sono le eterne prigioniere di un sì…».

Leopardi Greto Ciriaco

Le donne e l’islam: campi di studi in fermento

Due motivi stanno alla base di una crescente domanda di conoscenza sul mondo dell’islam nel suo insieme e, in modo più pressante, sulle donne dell’islam: l’immigrazione e la guerra.

La crescente immigrazione musulmana in Europa e la “recente” migrazione in Italia, con il conseguente e inevitabile confronto diretto, in casa propria, con modelli di vita, costumi, abitudini, condizioni diverse, ha condotto e conduce ad atteggiamenti quanto mai dissimili. Si va dal rifiuto totale all’indifferenza e da questa all’apertura, alla volontà di dialogo. Da qui nasce una sentita necessità di conoscere e di farsi conoscere per favorire, nel migliore dei casi, l’“integrazione” o, nel peggiore dei casi, l’“assimilazione”, del nuovo arrivato e della nuova arrivata. D’altra parte, il perdurare e l’incancrenirsi di situazioni conflittuali, l’apertura di nuovi fronti di guerra, la globalizzazione del terrorismo e della lotta al terrorismo fa sì che lo sguardo dell’uomo si rivolga sempre più verso il mondo islamico per trovare soluzioni ad una serie di angosciosi interrogativi. Da qui nasce il forte desiderio di conoscere per capire “le ragioni degli altri” o, forse, solo per far capire meglio le proprie.

Tutto ciò ha impresso un’accelerazione straordinaria agli studi sul mondo islamico in Italia, con forte ritardo rispetto ad altri paesi europei quali la Francia e l’Inghilterra. Tutti gli aspetti sono al centro di questo nuovo slancio culturale: dalla religione alla politica (il passo è breve e necessario), dalla società all’economia, dalla lingua alla letteratura, dalla condizione dell’uomo a quella della donna. Contemporaneamente si assiste ad una straordinaria messe di pubblicazioni, un fenomeno per certi versi inquietante. La ricchezza dell’offerta editoriale dopo l’11 settembre e dopo l’attacco in Afghanistan è tale da destare parecchi dubbi sulla sua validità scientifica. L’11 settembre può essere considerato – nel breve periodo – uno spartiacque tra le pubblicazioni meditate e quelle dettate dalla prospettiva di facile guadagno. Le pubblicazioni sulle donne del mondo islamico sono uno specchio fedele della situazione generale cui si è accennato. Muovendoci con cautela in questa marea di scritti in tutte le lingue conosciute è possibile rintracciare alcuni fili rossi che legano strettamente tematiche e prospettive.

Quello che immediatamente viene messo in risalto dalla letteratura scientifica nel suo insieme è il concetto di “diversità”, da applicare a tutti gli ambiti e non solo all’universo femminile, in contrapposizione alla visione uniformante proposta dai media e da certe pubblicazioni “divulgative”. Accettare la diversità e la varietà della condizione della donna, nello spazio e nel tempo, è fondamentale per potersi avvicinare senza troppi pregiudizi all’universo femminile. Prendere coscienza delle trasformazioni, sia in direzione di una progressiva emancipazione femminile e sia in direzione di un brusco irrigidimento dei costumi e di una drastica riduzione della libertà personale, è un secondo punto importante da contrapporre alla visione della staticità e dell’immutabilità delle condizioni. In breve, la condizione della donna algerina – al di là dei tratti comuni – non può essere confusa, come spesso accade, con quella della donna saudita, né la condizione della donna iraniana prima della rivoluzione del 1979 può essere facilmente affiancata a quella del periodo successivo. Questioni scontate per gli “spartiacque” e i “confini” europei ma che tali non sono per gli “spartiacque” e i “confini” della sterminata Dar al–islam (la casa dell’islam) che va dall’America settentrionale e meridionale (dove si trovano stati con forte presenza musulmana, la Guyana e il Suriname), all’Indonesia (il più popoloso stato musulmano) e dall’Europa settentrionale all’Africa subequatoriale.

Nell’ottica della diversità e della trasformazione, la donna di fronte alle leggi e alle consuetudini proprie di ciascuno stato musulmano in un dato momento della sua storia è certamente uno dei temi più ricorrenti nelle pubblicazioni più significative. Come si sia evoluto il pensiero religioso musulmano sulla donna ed a che cosa abbia condotto nell’ultima metà del secolo scorso la deriva del radicalismo islamico in alcune regioni del mondo musulmano è un altro dei punti cruciali attorno al quale si incentra buona parte dell’attenzione di studiosi e lettori. Quali siano i margini di azione politica, economica e sociale della donna nei diversi paesi del mondo musulmano è anch’essa una domanda importante che richiede, come le altre, una risposta differenziata: donne che si realizzano nel mondo dell’imprenditoria e della politica, donne che insegnano clandestinamente ad altre donne con l’incubo di pene severe. Quali siano, infine, le costrizioni sociali strutturali che la donna subisce passivamente o accetta più o meno favorevolmente è un altro settore di studi ricco di lavori editi e di ricerche in corso. Tra i temi appartenenti a quest’ambito quello che ha sempre destato un grande interesse in Occidente è il tema del “velo”. Quanto sia rude coercizione e quanto sia spontanea accettazione, come sia il mondo attraverso il velo e come sia la donna di là del velo sono alcuni degli interrogativi più frequenti. A questo sentiamo il dovere di aggiungere: quale varietà di copricapi per la donna e per l’uomo esiste nel mondo musulmano? Mille e un velo e mille e un turbante, secondo un’espressione araba dal sapore antico. Quale varietà di uomini e di donne esiste nel mondo musulmano? A Voi la risposta.

Salvatore Speziale

Dialogo silenzioso

2002, Ramallah. Una manifestazione internazionale. Due donne si osservano. Una è palestinese, l’altra è italiana. Il loro dialogo resterà silenzioso.

(Fadwa)

Chi ci opprime?

Che cosa è questo peso che soffoca l’orizzonte? Cosa sono queste urla che vietano la pace?

Ho fame, mangerei il mondo.

I miei figli sono ancora vivi, alhambdulillah (grazie a Dio). Stanno lanciando ogni pietra di questo muro che cresce quotidianamente.

Chi ci opprime?

Cingolati rabbiosi vomitano macerie, città intere diventano prigioni, i campi divengono deserti…

Ho fame, mangerei il mondo che ci abbandona, ci giudica, ci aiuta, ci offende…

Riconosco l’ipocrisia e il dominio. Non curvo le spalle e non ringrazio chi mi ha rubato la casa e mi concede di fare una tenda nel mio giardino.

Mi ostino a ricordare che anch’io sono umana.

Sorella, mentre guardi il mio hijab (velo che copre la testa lasciando scoperto il volto) vedo i tuoi occhi riempirsi di ribellione e pietà.

Ho studiato, alhambdulillah. Sai, ho scelto mio marito, l’ho amato e… l’ho visto morire.

Chi ci opprime?

Vedo stranieri apparire e scomparire, marciare accanto a noi e poi… dimenticare?

(Maria)

Che cosa ci divide?

Ho raggiunto questa terra tremando, questa violenza è inaudita ed io mi sento complice.

Ho paura di perdere la mia umanità, di restare sola e disperata.

Che cosa ci divide?

Una folle corsa. Ma il mio corpo è vecchio e stanco, non può più illudersi.

Ho paura di morire inutilmente. Ho lottato, ho amato, ma ora che cosa resta?

Vestita come sono ti apparirò immodesta e ridicola.

Sai, senza colori mi spengo ed il caldo lo sopporto male.

Che cosa ci divide?

Vedo armi puntate verso di noi e già arriva il fumo negli occhi…

Annalisa Frisina

Donne curde

Il mito della relativa libertà delle donne curde ci è stato tramandato dagli scritti dei viaggiatori del passato. Prassi che ha fondamenta storiche in alcune aree del Kurdistan meridionale, in particolare a
Sulaimaniya in Iraq, dove vi sono tracce del matriarcato praticato nel passato.

Nei secoli scorsi i viaggiatori occidentali hanno spesso descritto la bellezza e la forza di carattere delle donne curde che hanno un ruolo di rilievo nella società curda come madre, compagna, capo politico e talora combattente. Danno una rappresentazione oleografica della donna curda, spesso in contrapposizione alla donna araba. In base a questo stereotipo la donna curda gode di una notevole libertà. Non è velata, può scegliere liberamente il suo sposo, gode della stima dei familiari, è una compagna fedele e devota, una collaboratrice preparata ed accorta, prende parte attiva a feste e danze. La donna che ne abbia la capacità ha talora avuto accesso a cariche e funzioni, allo stesso titolo dell’uomo. Alcune hanno acquisito una reale autorità, diventando capo tribù alla morte del marito.

Questa diversità, se confrontata alla posizione della donna presso altri gruppi etnici mediorientali, è da mettere in relazione, soprattutto nel passato, al nomadismo praticato dalle tribù curde ed alla struttura socio–economica che dovevano attivare tutte le forze produttive. Il ruolo della donna curda deve essere contestualizzato. Alcuni nazionalisti curdi hanno accentuato le affinità di usi e costumi tra donne curde ed europee, focalizzandosi su alcuni aspetti della vita quotidiana femminile e restringendo l’attenzione alle descrizioni di alcuni viaggiatori europei che avevano enfatizzato la libertà e le virtù morali delle amazzoni curde.

Soprattutto a partire dal 1975, anno della sconfitta del movimento nazionale curdo in Iraq, i mutamenti strutturali hanno modificato, se non sconvolto, le dinamiche familiari, economiche, politiche e sociali di 25–30 milioni di curdi. La famiglia, da parte integrante della tribù, diventa nucleare; il processo di urbanizzazione e di dispersione porta i curdi a contatto con nuovi elementi culturali e con modelli diversi di sviluppo. E anche il ruolo della donna si sta modificando da quando la repressione contro il nazionalismo curdo ha determinato lo scardinamento della società tradizionale e l’indebolimento della struttura tribale.

Negli anni Novanta la condizione della donna curda cambia in modo violento e radicale. Mancano analisi sulle dinamiche e sulla reale condizione femminile nella società curda, che affronta le misure repressive e violente attuate dal partito Ba’th in Iraq e dal governo turco. Ciò provoca il più vasto sconvolgimento demografico curdo con l’evacuazione dai villaggi, la deportazione massiccia della popolazione, la distruzione dell’economia tradizionale basata su agricoltura e pastorizia, e lo smantellamento della società patriarcale.

In Iraq almeno 4.500 villaggi curdi sono distrutti, 20.000 curdi uccisi dalle armi chimiche, 1,5 milioni di contadini vengono deportati. Le campagne sono cosparse di circa 15 milioni di mine al fine di non renderle idonee all’agricoltura e alla pastorizia. Dal 1974, la guerra di Baghdad contro i curdi ha fatto oltre 400.000 morti, di cui circa la metà “scomparsi” (182.000), ossia il 10% della popolazione curda irachena.

In Turchia la rivolta curda (1984–1999) ha causato oltre 30.000 morti, distrutto 3.000 villaggi, impoverito e reso più vulnerabile la vita dei curdi. Almeno tre milioni sono emigrati nelle metropoli curde e anatoliche. Ancor più che nel passato, le donne sono protagoniste e vittime della distruzione della società tradizionale curda. La decomposizione della società incentiva la fuga verso l’estero, in primis della classe professionale curda, e privando la società curda di gran parte della sua capacità di sviluppo.

Mirella Galletti

Musulmane e femministe

L’aspetto più inquietante nell’analisi delle società musulmane, in particolare quando si tratta di questioni di genere, è che si ritiene che società diversissime tra loro – basti pensare al fatto che l’islam si estende dal Marocco all’Indonesia – abbiano un atteggiamento unitario nel trattare le sfide poste dall’evolversi del corpo sociale. Pertanto, l’affermazione che esistono musulmane femministe provoca le reazioni più diverse, dall’incredulità allo scetticismo, passando raramente per l’interesse. Eppure questo movimento non formalizzato ma diffuso in tutti i paesi musulmani del mondo, opera da anni per portare una voce nuova, per proporre una nuova interpretazione del testo sacro e per incidere sugli uomini e le donne che ogni giorno si scontrano con letture tradizionali della cultura musulmana.

Il termine femminismo musulmano risale agli anni Novanta ed è stato utilizzato contemporaneamente in diversi contesti, in particolare l’Iran, l’Arabia Saudita e la Turchia (e anche questo dato dovrebbe far riflettere sull’immagine che si ha di questi paesi). Le accezioni sono ovviamente diverse e il campo semantico coperto dal vocabolo si è evoluto col tempo; oggi possiamo affermare che si identificano come musulmane femministe quelle donne – studiose e non – che svolgono ricerche sui testi e sulle pratiche tradizionali per riproporle scevre da un’interpretazione patriarcale. Il nodo della questione è, come d’altra parte è stato in Occidente, proprio la “trasmissione della cultura” in senso lato, da sempre in mano maschile e che ha quindi escluso automaticamente le donne dalla storia, indipendentemente da quanto affermato nel Corano. Le femministe musulmane, dunque, come primo obiettivo si pongono lo studio del Corano e delle tradizioni legate alla vita del Profeta con un approccio critico, considerando che il Corano è rivelazione ma non è Dio e che il Profeta è un modello non nel senso che se ne debbono seguire i singoli comportamenti in situazioni specifiche, bensì che bisogna condividere il suo stesso atteggiamento e coraggio nel condurre una vita dettata dalla fede. Quest’ultimo punto è continuamente sottolineato: le femministe musulmane non mettono in discussione la rivelazione, ma operano per veder riconosciuta una maggiore equità di genere all’interno dell’islam. Tale atteggiamento porta a ridiscutere anche l’applicazione della shari‘a, la legge religiosa, poiché anch’essa è considerata come produzione umana e perciò fallibile. Come da più parti sollecitato da diverso tempo, non solo dalla parte femminile della società musulmana, si richiede la “riapertura della porta dell’interpretazione”, ritenuta chiusa dall’XI secolo circa e che avrebbe fissato, una volta per sempre, l’interpretazione del testo. Ciò richiede, ovviamente, da parte di queste studiose un impegno intellettuale non indifferente; si pensi ad esempio al solo problema della lingua araba, veicolo indispensabile per una nuova ermeneutica e al fatto che queste nuove interpretazioni devono essere inattaccabili dal punto di vista del metodo.

Alcune esponenti del movimento superano anche la distinzione di genere; esse ritengono, infatti, che la lettura non patriarcale del Corano non sia legata al punto di vista di chi interpreta – in questo caso le donne e che il Corano è, pertanto, a–patriarcale in assoluto.

Come si può ben comprendere anche da questa breve esposizione la portata di tali correnti di pensiero è rivoluzionaria, non solo all’interno della società musulmana, ma anche al di fuori di essa. Una nuova ermeneutica del testo sacro, infatti, costringerebbe il mondo occidentale a rivedere completamente la propria immagine dell’altro e tale “revisione” avrebbe come conseguenza inevitabile il ripensare anche la propria identità.

Siamo convinte che ciò sia possibile e anche auspicabile, ma l’accettazione di una nuova lettura nell’islam non può avvenire che per consenso. Per questo il primo scopo delle femministe musulmane è quello di acquisire visibilità nei propri paesi e in Occidente e in questo senso desideriamo sia letto il nostro contributo.

Jolanda Guardi

Le donne immigrate egiziane al centro di un nuovo spazio televisuale[1]

Un nuovo campo di ricerca nel settore degli scambi interculturali tra l’Europa e il Mondo Arabo ha assunto maggiore importanza a partire dalla metà degli anni Novanta, sia sul piano delle esperienze quotidiane delle famiglie immigrate in Italia, sia sul fronte dell’industria dell’informazione e della comunicazione. Da quando sono stati siglati gli accordi di Schengen, attraversare fisicamente le frontiere è diventato sempre più difficile. L’impatto di queste politiche restrittive non agisce solo sul piano materiale ma anche su quello simbolico e psicologico, rendendo più restie le persone a viaggiare. Contemporaneamente, le opportunità offerte dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno favorito gli scambi tra nord e sud del Mediterraneo che hanno subito una riconfigurazione.

Gli anni Novanta hanno visto una proliferazione di nuovi canali satellitari, che hanno modellato il mediascape Euro–arabo in modo nuovo e la liberalizzazione in questo campo ha permesso scambi inediti con il coinvolgimento di diversi attori economici e sociali. Se all’inizio degli anni Novanta era ancora usuale per gli immigrati egiziani inviare videocassette con frammenti di telegiornale o con film in lingua araba (che era possibile affittare solo nelle grandi città italiane e in pochissimi posti, come nel negozio di videonoleggio di Mohammed aperto alla metà degli anni Ottanta a Milano), nel corso del decennio l’offerta televisiva si è diversificata con numerosi canali satellitari, rendendo gradatamente desueto il noleggio di videocassette con film e notiziari.

Lo spazio virtuale e televisuale (non strettamente televisivo) che si è andato così creando negli anni Novanta, ha avuto un duplice impatto: sui cittadini della società d’accoglienza, fruitori di telegiornali e notizie che smaterializzano sempre più l’immigrazione clandestina rendendola evento notiziabile in circostanze particolari; e sui migranti stessi, i quali utilizzano gli strumenti della comunicazione (videolettere in VHS, email, trasmissioni televisive satellitari) per riappropriarsi di quei momenti di scambio e di relazione con il paese di origine. Da una parte, allora, i confini nazionali diventano sempre più dei “teleconfini”. E’ infatti impossibile fissare la presenza concreta degli immigrati nelle aree di sbarco, essendo queste persone immediatamente prese in carico dalle forze dell’ordine. Quello che ci rimane sono immagini di notiziari che fissano, in modo cristallizzato e stereotipato, commenti e analisi sull’immigrazione contemporanea. Dall’altra parte, la necessità delle famiglie immigrate di mantenere i contatti con i parenti costantemente nel tempo, ha indotto a forme di autorganizzazione per l’invio di denaro, di pacchi, di regali che sono state gradatamente sostituite da società del settore privato che rendono possibile un recapito capillare dei beni spediti. Tra questi, troviamo le videocassette autoprodotte che permettono, in particolare alle donne, di gestire la costruzione di un vicinato virtuale dai confini labili e mutevoli. Consentono altresì di costruire nel tempo relazioni familiari transnazionali, inventando di continuo forme nuove di comunicazione.

Una delle prime volte in cui mi recai in visita da Mervat e Ibrahim (nomi inventati di una coppia egiziana emigrata a Milano alla metà degli anni Ottanta), la donna mi mostrò un album di fotografie nel tentativo di illustrare il suo racconto di situazioni di vita quotidiana, per introdurmi ai suoi parenti rimasti al Cairo e raccontare eventi significativi del suo passato. Nel corso delle conversazioni con le donne egiziane che ho intervistato nell’arco di quattro anni dal 1993, a Milano e al Cairo, mi è capitato spesso di guardare fotografie o video–lettere autoprodotte e talvolta girate dalle donne stesse. Un pretesto per ricordare o un ausilio per la memoria ma al contempo un modo di raccontare per immagini la propria esperienza migratoria. I video rappresentano anche un modo per insegnare la parentela e le relazioni con gli assenti: le video–lettere vengono ad assumere una valenza comunicativa e non solo di mera riproduzione. E’ proprio la rilettura attraverso le immagini delle esperienze fatte che permette alle donne di confrontarsi con il proprio passato, di comunicare con i parenti lontani e di esercitarsi in quell’arte dell’“abitare la distanza” che è propria della migrazione. Questo fornisce una visione prospettica sul proprio passato e sul proprio futuro.

Tre sono le trasformazioni più significative dal punto di vista dell’esperienza concreta dei migranti, soprattutto secondo la prospettiva delle donne:

  1. La possibilità di mantenere un contatto diretto con i famigliari di origine, necessità tanto più urgente quando la famiglia è all’inizio del ciclo migratorio o quando parte di essa ha deciso un ritorno temporaneo per questioni ritenute importanti (ad es. la scuola delle figlie femmine, il matrimonio, la malattia di un parente prossimo). A tessere la rete di relazioni familiari sono le donne che spesso hanno imparato rapidamente a utilizzare i videoregistratori, i canali satellitari o le videocamere necessarie a girare i film–ricordo.
  2. La possibilità di documentare e quindi di forgiare e “inventare” la propria esistenza quotidiana in Italia, pensata per immagini e suoni assemblati in modo da mostrare solo ciò che si vuole far vedere del paese di immigrazione e/o delle proprie condizioni di vita. Una nuova base di collaborazione con gli uomini è quindi necessaria nelle fasi del montaggio o nella scelta delle immagini, un affare più maschile. Questo ha un impatto diretto sulle relazioni di genere entro la famiglia.
  3. La possibilità di costruire assieme ai figli in tenera età un linguaggio familiare (spesso plurilingue), di insegnare loro la “grammatica” delle relazioni familiari che nelle famiglie mediorientali è così importante. Così facendo, la creazione di filmini autoprodotti, le videolettere, si inseriscono perfettamente in quella missione che ogni “buona madre” egiziana persegue: l’educazione dei figli nel rispetto degli anziani e dei famigliari più prossimi, soprattutto in occasione di eventi importanti che segnano il ciclo di vita dell’individuo e della famiglia: il sibuc (la festa del settimo giorno dalla nascita), il matrimonio, le visite ai parenti del venerdì, il mese del ramadhan e la cid el–kebir, per citarne alcune. Il divieto islamico di fotografare viene rispettato solo dai parenti più rigorosi e conservatori, e non sono infrequenti dibattiti familiari anche su questi aspetti, soprattutto quando le riprese avvengono, per es. alla rottura del digiuno durante il mese di ramadhan. Quando le video–lettere sono inviate dall’Egitto a Milano, spesso assieme a queste immagini vi sono registrazioni di telegiornali o di programmi televisivi, non solo perché la televisione è compagna fedele di molte occasioni conviviali, ma anche al fine di aggiungere un commento sonoro.

Pubblico e privato sono segnati da confini più labili di un tempo. Questa autoproduzione di materiale visuale convive nel nuovo mediascape euro–arabo non solo come momento “privato” di scambi intrafamiliari contrapposto alla produzione televisiva satellitare, bensì come forma attiva di costruzione della propria dieta mediale fatta di trasmissioni satellitari delle tv arabe, di programmi televisivi italiani, e di un “pacchetto personalizzato” di immagini pubbliche e private del proprio paese di origine o del paese di immigrazione.

Paola Schellenbaum

[1] Questo contributo è stato pubblicato in forma molto più sintetica nel 2002 per esigenze tipografiche.

Le donne migranti e la ridefinizione dello “spazio Mediterraneo”

Le vicende storiche, l’intensità dei flussi migratori contemporanei e la compressione spazio–tempo, tratto saliente di questa epoca, inducono a percepire il Mediterraneo come un’area geografica e culturale interconnessa dove tradizione e modernità convivono e coesistono in costante dialettica. Ciò nonostante, assistiamo al proliferare di rappresentazioni che tendono ad associare “tradizione” con la sponda sud e “modernità” con la sponda nord del Mediterraneo. Le donne migranti arabo–musulmane, in particolare, sono spesso al centro di queste rappresentazioni, descritte come protagoniste di un viaggio culturale e geografico dalla tradizione alla modernità. Non a caso, è sovente attorno al controllo dei comportamenti e dei corpi femminili che frontiere di comunità e culture sono simbolicamente disegnate. Le donne sono al centro delle aspettative di chi le vuole depositarie di una supposta “autenticità” culturale da conservare da una parte, o di chi le assume come icone e simboli del cambiamento e dell’adattamento culturale, dall’altra.

Nell’immaginario europeo, le donne musulmane che praticano o assumono simboli religiosi come parte della loro identità sono dipinte come vittime per eccellenza di una cultura patriarcale e misogina, e sono contrapposte alle donne secolarizzate che rifiutano connotazioni religiose o, più semplicemente, non le assumono come centrali nella definizione di sé, e rappresentate, quindi, come occidentalizzate. Poche sono le letture o le ricerche che enfatizzano i valori soggettivi o di genere e le rinegoziazioni di significato di pratiche culturali nell’elaborazione di nuovi e diversi percorsi di modernità. Altrettanto poche sono le interpretazioni che riconoscono che i processi di secolarizzazione non sono estranei alla sponda sud del Mediterraneo, ma sono stati e sono tuttora storicamente parte del vissuto socio–politico di quel mondo.

Il legame tra islam, tradizione e modernità, inoltre, e molto più complesso di quanto questa comune rappresentazione non lasci trasparire. Per esempio, donne che assumono l’islam come parte fondamentale della loro identità possono rifiutare aspetti tradizionali della loro cultura, vissuti come antitetici ad un progetto di modernità islamica, mentre donne che conducono vite secolarizzate possono essere interpreti di pratiche culturali tradizionali. Inoltre, nel caso delle donne migranti, piuttosto che essere in continuità con dinamiche culturali e identitarie del paese di origine, i processi di riscoperta e reinvenzione di pratiche e saperi religiosi si intensificano per molte nel contesto di accoglienza.

Rappresentazioni meno essenzialiste e dicotomiche svelano percorsi culturali ed identitari molteplici, generati da un intricato intreccio tra identità di genere, generazione e classe sociale. Emerge così un quadro di grande eterogeneità e complessità fra le donne arabo–musulmane dove sono visibili identità plurali e svariate interpretazioni su islam, autenticità culturale, modernità e il rapporto tra loro.

Ma vi è anche un’altra dimensione che scardina la percezione dicotomica con cui si è soliti guardare alle due sponde del Mediterraneo ed è il carattere transnazionale della vita dei migranti. Rituali, cibi, oggetti e pratiche religiose che “viaggiano” da una sponda all’altra forgiano una crescente interconnessione tra luoghi e culture sfidando barriere e confini. Le due sponde del Mediterraneo si ricongiungono offrendo vite e rispondendo a desideri contrastanti ma complementari ed entrambi cruciali per la realizzazione di una piena costruzione di sé. Lavoro e denaro, e quindi capitale economico nel paese di emigrazione, riconoscimento sociale e, sovente, il sogno di progetti futuri e quindi capitale simbolico, nel paese di origine. Ma se le donne sono spesso le protagoniste della tessitura di ponti tra qui e lì, solo le prossime generazioni ci diranno se le sfide della doppia appartenenza saranno accolte. Se le frontiere che separano le due rive del Mediterraneo saranno sempre più porose o se, al contrario, barriere sempre più impenetrabili saranno erette.

Ruba Salih

La prospettiva islamica sulla donna

La donna è l’anima della società, così come è l’anima della famiglia: questo vale per tutte le civiltà che si sono succedute nella storia fino ai nostri giorni. Dibattere sul ruolo della donna equivale quindi a interrogarsi sull’anima stessa di un determinato popolo o nazione, così come mortificare la condizione femminile equivale a venir meno al rispetto per la stessa anima di un’intera civiltà. Proprio perché il mondo moderno si è sempre più ammalato sotto il profilo psichico, il dibattito sulla donna è diventato una parte integrante, e in un certo senso anche ossessiva, della cultura attuale.

Non è un caso quindi che la schematica contrapposizione tra Occidente e Oriente, che nell’ultimo decennio si è focalizzata nell’idea di uno scontro tra l’Occidente e Mondo islamico, venga letta anche come una contrapposizione tra due differenti modelli femminili: la “libertà” della donna occidentale, da una parte, l’“oppressione” di quella islamica, dall’altra. Si tratta ormai di schematizzazioni talmente consolidate da provocare una distorsione della percezione della realtà: inutile dire che per mantenere in vita tale prospettiva occorre sempre più spesso ricorrere a vere e proprie falsificazioni. Tale schema, infatti, rientra in un insieme di credenze che si sostengono le une con le altre e che non possono essere facilmente modificate, pena il crollo di un interno sistema di pensiero.

In realtà, come sarebbe facile da dimostrare, il mondo islamico è ben lungi dal poter essere ricondotto alle deliranti ideologie che i movimenti fondamentalisti vorrebbero far credere essere parte della religione. Non bisogna dimenticare che il fondamentalismo è un’ideologia politico–totalitaria nata all’inizio del XX secolo, ben tredici secoli dopo l’avvento della rivelazione islamica, con la quale si pone in netta antitesi. Paradossalmente si vorrebbe identificare l’islam con il fondamentalismo, nei confronti del quale esso è il più fiero baluardo.

Se vi è un messaggio peculiare dell’islam nei confronti della donna è quello che la sua “emancipazione” deve passare attraverso una liberazione spirituale da tutti i vincoli che impediscono e distraggono una donna dal raggiungimento di una piena “realizzazione”. L’uomo e la donna hanno, infatti, le medesime esigenze spirituali, anche se per realizzare le quali può essere necessario ricorrere a mezzi diversi: una società che non solo distrae continuamente dalla prospettiva religiosa, ma che limita in pratica le possibilità della donna di vivere pienamente la sua condizione di “madre”, è una società che in definitiva impedisce una piena libertà religiosa, al punto da chiudere la porta alla stessa possibilità di “realizzazione spirituale”. Secondo la dottrina islamica, infatti, le donne che raggiungono tale perfezione precederanno gli uomini nell’Altro mondo, come Maryam, la vergine madre di Gesù, o Fatima, la figlia del profeta Muhammad, così come hanno fatto in questo mondo, in cui sono state il collante delle comunità di credenti che a loro si sono rivolte come a vere e proprie madri spirituali (si veda l’appellativo di “madri dei credenti” delle mogli del Profeta). La donna vive la religione in maniera più “naturale” dell’uomo e la violenza, mentale e materiale, che si deve fare nei loro confronti per distorglierle dalla loro naturale propensione è in un certo senso maggiore di quella che si mette in atto nei confronti degli uomini: un mondo che vorrebbe ridurre le donne solo ad un “corpo”, che lo si voglia nascondere od ostentare, ha forse toccato il punto più basso dell’abbrutimento materialista.

Ieri come oggi, quindi, le società si misurano anche sul “rispetto” che esse portano nei confronti delle loro anime, vale a dire del loro elemento femminile: non si può portare rispetto verso tale anima se si nega completamente la prospettiva religiosa, intellettuale e simbolica che il ruolo della donna manifesta. La donna, poiché genera, è più vicina dell’uomo alla creazione divina, al mondo della natura: in Oriente come in Occidente la mancanza di rispetto per la natura interiore della donna è simmetrica e proporzionale alla mancanza di una tutela dei più elementari equilibri della nostra Terra.

Ahmad ‘Abd al–Waliyy Vincenzo

Donne d’Aspromonte

Francisca ci passava con l’olio, il rimedio più efficace per togliere il malocchio. Una prevenzione obbligatoria per la mia generazione, ragazzi nati quando ai nostri padri la guerra pesava molto più di quanto pesa un ricordo. Obbligatoria più che il vaccino contro il vaiolo di cui portiamo il marchio sul braccio. Ne rivedo i gesti: il segno della Croce, ripetuto tre volte, il lento roteare di una tazzina con acqua sul capo del “paziente”, tre gocce d’olio fatte cadere dall’alto scuotendo l’indice imbevuto. Mentre sillabava mute formule di scongiuro. Ripeteva il rito finché le gocce si stagliavano nette e distinte – prova del malocchio finalmente raccolto – piuttosto che allargarsi in luccicante dissolvenza.

Mia nonna, nel prendere possesso di un nuovo acquisto, come prima cosa si applicava per localizzare la fattura. Dannandosi anima e pensieri se non la trovava. Esserci doveva esserci per forza: a quel tempo non avevano una digestione facile i paesani nati pari, consideravano un’offesa del cielo che le fortune altrui non ristagnassero come ristagnavano le loro. Durante l’ispezione, pretendeva la sommessa presenza di tutte le donne della famiglia, i maschi ristretti dentro le mura di casa, un silenzio da tragedia e l’imbrunire su un cielo limpido fino all’ultimo orizzonte. Poi girava lenta la testa in tondo annusando l’aria. Finché centrava un punto e lì obbligava le ricerche. La fattura la trovò una volta sola: un limone infilzato di spilli nascosto sotto una tegola del casamento appena acquistato con cambiali da anchilosarsi la mano a furia di metterci le firme dell’impegno e che poi fecero ribollire per anni solo patate nella pentola sulla cucina a legna, tanto che non avrebbe fatto meraviglia vedersi germogliare la pianta dentro lo stomaco.

Credevo fossero solo ricordi ingialliti dal tempo, folklore da non disperdere perché patrimonio di tutti, ignoranza e credulità che luce elettrica e televisione avevano sgombrato e relegato in un passato irripetibile.

Il 2 settembre, però, al Santuario di Polsi, il prete officiante durante l’omelia ha ammonito le donne ad abbandonare le pratiche di superstizione e di stregoneria e a non ricorrere alle maghe nei momenti del bisogno e dello sconforto, ma alla chiesa. Lo ha ripetuto fino ad averne nausea.

Ho girato lo sguardo a cercare le donne, percorrendo la folla stipata ad ascoltar Messa. In tante m’è parso di riconoscere Francisca e mia nonna, lei nata nelle profondità dell’Ottocento. Eccole, sono loro, possono essere solo loro le peccatrici rimproverate. Ne odoro i pensieri ristagnanti. Trasudano dal loro aspetto, dai gesti, dagli abiti che indossano. Sono antiche. Nei volti, nei capelli intrecciati a corona attorno alla nuca, nei fazzoletti che concedono solo l’ovale del viso, nelle lunghe saie, nere di un dolore remoto, a cui hanno ormai fatto tanta abitudine da doversele trascinare fino al fondo. Più di una “coltiva” baffetti da far invidia a un giovincello e su cui mai passerà il rasoio, per la maggiore vergogna a mostrarsi senza.

Il tempo sembra aver saltato di netto un secolo. Mi hanno fatto venire in mente il burka che copre carni, capelli e persino gli occhi delle afgane. Le donne viste a Polsi non lo indossano. Ugualmente, però, spiano il mondo da piccoli spiragli furtivi, hanno i ristretti orizzonti dell’occhio di un padrone, i passi indirizzati con la verga. Sono le eterne prigioniere di un sì. E sono loro a praticare stregoneria, a rivolgersi alle maghe, magari dopo aver ascoltato Messa.

Ho ripensato a Francisca.

Vive gli ultimi fiati, vecchia e cadente, mille grinze che il cedere del sorriso non spiana. Ancora passa con l’olio. Giovani e vecchi, persino la figlia, medico che lavora in ospedale. E che si sottopone docile. Come per non scontentarla. Ma che, quando resta a lungo lontana dal paese, non rinuncia a farle recapitare un indumento appena smesso, perché compia su esso il rito.

Mia nonna invece è morta da tempo. Altre però, come già lei, cercano limoni infilzati di spilli sotto una tegola.

Questo mentre, intorno, pure lì a Polsi, il loro stesso mondo corre, si consuma frenetico, è pervaso di modernità, esagera di libertà, si muta di pelle. E le donne con esso. Disinibite, più libere, si fanno scivolare addosso l’antico, scelgono, recidono legami, si offrono a nuovi destini, avanzano lunghi passi verso la parità dei sessi.

Accanto, dure a morire più che la gramigna, deprimenti oasi, ristagnanti sacche di resistenza. Al paese di S., ma anche altrove, tutt’oggi si evitano gli auguri per la nascita di una figlia femmina ed è già progresso che ci si sforzi a un sorriso e non si estragga più il coltello se qualcuno si arrischia a farli.

Contrasti di una terra che non sa liberarsi del passato, che cammina lenta, a volte tanto da apparire immutabile. Finirà prima o poi. Ci penserà quel tempo per altre più veloce.

Domenico Gangemi

Premio 2002

 

 

 

 

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