Premio Letterario 2003-2004-2005

7

Anno 2003

Pace e guerra nel Mediterraneo[1]

Le vie della Guerra e della Pace nel Mediterraneo

Visti gli angosciosi scenari bellici che sembrano incombere quotidianamente sul mondo intero e, segnatamente, sul Mediterraneo, a detta di reputati analisti e rinomati giornalisti, è sembrato più che opportuno convogliare l’attenzione di studiosi e quindi di lettori verso il tema della Guerra, vista però con l’animo sempre rivolto alla Pace. Tutti i contributi raccolti quest’anno, scritti da illustri studiosi italiani e stranieri, analizzano cause, immediate e remote, della conflittualità intramediterranea, presentano scenari complessi e situazioni specifiche, partono da bagagli di conoscenze e strumenti di osservazione diversi e complementari: storia, diritto, islamistica, politologia, sociologia. Il livello del discorso insieme alla varietà delle tematiche e la ricchezza degli approcci metodologici crediamo siano i veri punti di forza degli scritti recepiti.

Apre la serie di contributi Daniel Panzac con un excursus sulle maggiori “questioni” mediterranee sul lunghissimo periodo, dal XIV secolo fino al XX. Dividendo il periodo in questione in tre fasi cruciali, osserva l’avanzata, l’affermazione e la crisi dell’Impero turco ottomano con il corollario di casi aperti che la sua fine pone politicamente e storicamente.

Vincenzo Foti centra la sua analisi su uno dei momenti cruciali di scontro nel Mediterraneo messi in contro da Panzac: la battaglia di Lepanto del 1571. Una battaglia su cui molto è stato scritto, alimentando a dismisura il mito di una straordinaria vittoria cristiana sui musulmani. Al vaglio dei fatti seguenti, si rivela invece uno scontro affatto conclusivo e determinante, nonostante le navi distrutte e i morti registrati.

Michele Brondino, sembra proseguire il discorso di Daniel Panzac, puntando gli occhi sugli interessi di carattere politico-economico che dominano nei tempi recenti i contrasti nel Mediterraneo piuttosto che su ipotetici e fuorvianti scontri di civiltà. Partendo dai fatti dell’11 settembre 2001, il suo sguardo risale nel tempo fino all’origine della questione palestinese, incrociando le politiche internazionali nei momenti cruciali come la guerra del Golfo del 1991.

Tocca a Paolo Branca, spiegare le ragioni dell’odio che arma troppe volte il braccio di estremisti islamici, una minoranza che occupa la scena mondiale oscurando l’universo della diversità islamica. In uno studio attento e puntuale che ha perso pochissimo della sua attualità nonostante i nove anni trascorsi dalla sua stesura, l’autore ripercorre i motivi che l’Occidente origina e poi finge di dimenticare, minando sempre e comunque i rapporti con il mondo islamico.

La guerra, però, oltre che con i cannoni, si fa anche con le parole, con i fraintendimenti, con le mis-interpretazioni che lasciano un solco incolmabile nella nostra memoria e segnano barriere insuperabili. Alle parole di guerra e alle guerre di parole sono rivolti i contributi di Salvatore Speziale e di Jolanda Guardi. Nel primo caso di fronte all’abuso e fraintendimento del termine “jihad”, uno dei termini più positivamente pregni dell’arabo e del Corano, si cerca di contrapporre gli altri termini coranici più legati all’ambito della guerra: “harb” e “qital”. Nel secondo, l’autrice, partendo dal modo diametralmente opposto in cui sono state trattate due opere sull’esercito algerino invita a riflettere sull’uso strumentale delle parole e delle traduzioni di opere dall’arabo che vengono fatte più per sfruttarle a fini politici che per trasmettere il pensiero dell’autore.

Dario Tomasello segue il doppio binario dell’analisi linguistica e dell’interpretazione teologica della parola “pace” nell’islam. Enuclea uno dopo l’altro i principali versetti del corano che mostrano chiaramente come la rivelazione coranica ponga la pace come fondamento indubitabile per ogni credente nella religione monoteista.

Antonio Spadaro, mette in campo una fine visione comparativa centrata sulla relazione pace–giustizia nel pensiero giuridico e della lotta non violenta ai fini della giustizia sociale e politica. Confrontando esempi danesi, indiani, spagnoli, polacchi, filippini e sudafricani, l’autore indica il percorso da mera visione utopistica a concreta possibilità.

Il caso curdo di Mirella Galletti, chiude in positivo questa serie di contributi mettendo in risalto la figura di straordinario mediatore di Sharif Pascià, ignota ai più, comune al passato curdo e calabrese. Nella sua parabola da Sulaimaniya, nel Kurdistan iracheno, dove nacque a Catanzaro dove morì, attraverso Istambul, l’Egitto, Monte Carlo, Parigi, Sèvres e Roma, si intravede una contiguità sorprendente tra le varie sponde del Mediterraneo che i curdi hanno riscoperto recentemente con Badolato.

Salvatore Speziale

[1] Due interventi, il primo sulla figura di Bartolomeo Romeo, scritto da Michelangelo Romeo e il secondo su Giovanni Cervadoro, scritto da Francesco Cervadoro, pubblicati nella brochure di quest’anno sono stati uniti agli altri scritti del 1998 sugli uomini illustri del Feudo.

Guerra e pace nel Mediterraneo orientale (XIV–XX secolo)[1] 

Il Mediterraneo costituisce un insieme geografico coerente magnificamente definito da Fernand Braudel, ma che, con l’eccezione del periodo romano, è stato in permanenza una zona di scontro. Conviene quindi distinguere le due parti che compongono questo mare interno perché, contrariamente al bacino occidentale, la cui unità politica è scomparsa definitivamente nel V secolo, la zona orientale è stata, a due riprese, interamente integrata in un solo stato: nell’Impero bizantino e nell’Impero ottomano. E’ questo periodo che inizia nel XIV secolo, con lo stanziamento dei turchi sulle sponde del mare Egeo, per concludersi all’inizio del XX secolo con il crollo dell’Impero, che si desidera esaminare dal punto di vista della guerra e della pace dividendo questi sei secoli in tre periodi.

1320–1520: apparsi intorno al 1300 nell’Anatolia nord–occidentale, i turchi ottomani occupano, a partire dalla metà del XIV secolo le due rive dello stretto dei Dardanelli. L’espansione spettacolare dei turchi è il risultato di guerre terrestri condotte in Asia e in Europa che pongono sotto la loro autorità delle porzioni sempre più estese della riva del Mediterraneo. Al momento della presa di Costantinopoli nel 1453, gli ottomani sono padroni della maggior parte delle coste del Mar Egeo, dell’Anatolia fino all’Attica passando per la Macedonia e la Tessali. Essi dominano allo stesso modo le due rive del Mar Nero, ad est i territori fino al Caucaso, e a nord quelli dei Balcani fino alla foce del Danubio. Infine, all’inizio del XVI secolo, una campagna brillante del sultano Selim I comporta l’annessione del sud–est dell’Anatolia, della Siria e dell’Egitto. Nel 1520, l’Impero ottomano è ormai il solo padrone dell’insieme delle regioni costiere del Mediterraneo orientale. Il possesso delle rive è sicuro, ma non lo è altrettanto quello delle isole e quello del mare propriamente detto. La regnano solo gli Europei dell’Occidente: principalmente i Veneziani e i cavalieri di Rodi.

1520–1770: In metà secolo, il sultano Solimano il Magnifico, e poi suo figlio Selim II, rovesciano questo equilibrio a loro profitto. A partire dal 1522, i cavalieri di Rodi sono eliminati dal Mediterraneo orientale e si rifugiano a Malta nel 1530. Con la conquista della maggior parte del Maghreb, l’Impero ottomano si stabilisce nel Mediterraneo occidentale, mentre lo stabilirsi dei turchi nel sud dell’Ucraina e della Crimea fa del Mar Nero “un lago ottomano”. In effetti, alla potenza quasi irresistibile dell’esercito, s’aggiunge una potente flotta di guerra che permette di affrontare vittoriosamente le squadre di Venezia e dei suoi alleati di Spagna, Genova e dell’ordine di Malta. Uno dopo l’altro, i possedimenti insulari occidentali, principalmente di Venezia, passano sotto il dominio ottomano. Al momento della battaglia di Lepanto, il 7 ottobre 1571, una delle più importanti battaglie navali dell’epoca moderna, 212 battelli cristiani hanno affrontato da 220 a 230 navi ottomane, cioè da cinquanta a sessanta mila uomini da una parte all’altra. Questa vittoria cristiana non ha impedito agli Ottomani di realizzare la conquista di Cipro, possesso veneziano, mentre l’obiettivo di Don Giovanni D’Austria era precisamente quello di impedirla. Dopo il 1574, i grandi scontri navali cessano e la carta del Mediterraneo è ormai fissata per lungo tempo. La Spagna distoglie il suo interesse dal Mediterraneo a profitto dell’Atlantico mentre gli Ottomani si sforzano di perseguire, senza grande successo, la loro espansione terrestre. La guerra di flotta fa spazio alla guerra corsara nella quale si rendono illustri i Barbareschi e i cavalieri di Malta. A partire della fine del XVI secolo, l’immensa costruzione politica dell’Impero ottomano diventa ugualmente un vasto insieme economico di cui il Mediterraneo orientale costituisce il cuore. Venezia definitivamente vinta, la pax ottomana regna dunque in tutta la regione.

1770–1920: Il dominio ottomano del Mediterraneo orientale e del Mar Nero è rimesso in discussione dalla Russia nel 1770. Quest’anno, la flotta russa del Baltico, appare nel Mediterraneo e distrugge la flotta ottomana a Cesme sulla costa anatolica. Questa sconfitta segna l’inizio di una serie di guerre dalle quali l’Impero ottomano ne esce sempre sconfitto. Dal 1774 al 1812, la Russia annette tutta la riva nord del Mar Nero facendo arretrare così la frontiera ottomana ai limiti del 1520. L’insurrezione dei greci nel 1820 provoca, con la costituzione del Regno Ellenico nel 1830, una prima breccia nel cuore dell’impero. In questo stesso anno, la presa di Algeri da parte dei Francesi intacca l’influenza marittima degli Ottomani nel Mediterraneo. Nei decenni successivi, si assiste al seguito di questa disintegrazione dell’Impero ottomano che si manifesta in due maniere. Inizialmente sul piano economico. Fino all’inizio del XIX secolo, la maggior parte dei porti ottomani avevano tra loro delle relazioni importanti come con l’estero. Dopo il 1830, questa complementarità viene meno rapidamente a profitto dei legami privilegiati con i porti europei. Un secondo periodo di disastri militari, nel 1877–1878, contro la Russia, comporta la perdita di numerose province marittime. La creazione della Romania riduce ancora la presenza ottomana nel Mar Nero, ma ancora di più, al momento in cui la Francia s’impossessa della Tunisia, gli inglesi si stabiliscono in Egitto e a Cipro. Una terza serie di guerre, nel 1911–1913, porta all’occupazione italiana della Libia e del Dodecanneso così come all’esclusione quasi totale degli Ottomani dai Balcani, particolarmente in Macedonia e in Tracia. La Prima guerra mondiale, durante la quale l’Impero ottomano affronta ancora una volta la Russia, la Francia e la Gran Bretagna, provoca il crollo dell’Impero e la perdita della sua frontiera marittima del Vicino Oriente, ormai ridotta alle sole coste anatoliche della Repubblica turca in pace con tutti i suoi vicini dopo il 1923.

Daniel Panzac (traduzione di Salvatore Speziale)

[1] Il testo è stato edito nella brochure del 2003 in francese.

Sud – nord: la direttrice dei sogni[1]

Nell’845 dopo Cristo, a seguito delle violente incursioni sulle coste dell’Europa Meridionale ad opera dei Normanni, l’Emiro umayyade di Cordoba, Abd ar–Rahaman II (822–852), decise la costruzione di una rete di fortificazioni su tutta la fascia costiera da lui controllata. I Ribat, questo il nome dato ai fortini, sarebbero stati una nuova versione delle famose «torri saracene», i cui resti sono presenti dalla Spagna al Mar Egeo. A popolare i ribat furono inviati degli emigranti volontari, chiamati Murabitùn (riecheggiante in alcuni nostri cognomi). La loro missione consisteva nell’adempiere ai doveri dello jihad e condurre una vita di preghiera. I Murabitùn respinsero la minaccia normanna in territori di cui potevano considerarsi nell’ordine: soldati invasori, pretendenti legittimi, protettori esclusivi. Inoltre, protagonisti, in quanto musulmani, di un fenomeno che caratterizzò gli ultimi due secoli dell’alto medioevo, secoli tra i più difficili della nostra storia. Nonostante non fossero certamente i soli, le feroci incursioni normanne e quelle, desolanti, per via terrestre degli ungari non erano di certo da meno, le popolazioni dell’Europa Occidentale associavano oramai i musulmani agli attacchi e alle guerre, idea che veicolata in forma epica, costituiva il presupposto per le future crociate.

Questo come altri casi di insediamento di una comunità “saracena”, si trattasse o meno di insediamento a seguito di incursione, è stato considerato troppo di frequente come un comportamento collegato ad una volontà espansionistica. Spesso non era così. I musulmani si inserivano in contese locali ed i contendenti facevano a gara per aggiudicarsi il loro favore, quando non li convocavano direttamente, come accadde ai saraceni dopo aver conquistato Palermo, i quali ricevettero richiesta d’aiuto dai reggenti di Napoli contro Longobardi e Bizantini.

In tutte le forme di migrazione umana, vi sono forze di attrazione e forze di spinta. Come, dopo una notte di libagioni, i baroni europei erano pieni di fervore per la crociata, così, dopo un giorno di preghiera, turchi, mamelucchi e giannizzeri sognavano prodezze in battaglia ed atti di gloria, nonostante il lungo viaggio, la fatica, il sacrificio ed, in genere, il terribile nemico da affrontare. Nel corso dei secoli, la tecnologia trasformò in prossimità la distanza fisica, scavando però un fossato dal punto di vista scientifico e tecnologico. Le esitazioni che contraddistinguono la decisione di adottare una nuova scoperta o un’invenzione tecnica caratterizzano, alla stessa stregua, l’asimmetria nelle relazioni. Si tratta, ancora una volta, di un problema culturale, di comunicazione e, soprattutto, di consapevolezza etica. Lo storico rammenta che, dopo il 7 ottobre del 1571, giorno della battaglia di Lepanto, il Sultano, senza alcuna motivazione propagandistica, affermava: «Gli infedeli hanno solo bruciacchiato la mia barba; crescerà nuovamente». Delle 250 galere che formavano la flotta turca, 80 furono affondate e 130 catturate e gli equipaggi imprigionati, ma il Sultano sapeva di avere risorse sufficienti per ricostruire la marina da guerra in pochi mesi, come in effetti fece. Era fermamente convinto che la sua forza principale fosse sulla terraferma e non sui mari. Sarebbe toccato al Generale Raimondo Montecuccoli mettere in rotta nella battaglia di San Gottardo dell’agosto 1664, insieme all’esercito nemico, le vanità sultanali.

L’analisi e la ricostruzione delle fonti storiche ci permettono di dire, al netto della critica, che l’adozione dell’artiglieria da parte musulmana non aveva colmato il gap esistente perché come lo stesso Montecuccoli, sulla base delle proprie esperienze, scrisse: «Questa esorbitante artiglieria (dei musulmani) ha bensì grande effetto dove ella colpisce, ma è malagevole da condursi. La nostra artiglieria è più maneggevole e qui consiste il nostro vantaggio sopra quello del turco». Era la tecnica che irrimediabilmente condannava i nemici dei popoli europei. Ricordando, in chiusura, che se le risorse, i bisogni, il sentimento religioso o la curiosità pseudo – scientifica possono assurgere al rango di forze di attrazione o di spinta, c’è comunque una lezione da trarre da quanto finora detto. Valutando l’importanza storica della battaglia di Lepanto, molti studiosi propendono infine per l’interpretazione del Sultano, «una grande vittoria senza conseguenze», criticando la mancanza di unità nel campo cristiano. Ma Lepanto non ebbe grandi conseguenze perché non fu una grande vittoria. Lepanto fu una battaglia anacronistica in un’epoca in cui nuovi tipi di navi e di armi aprivano una nuova era nella guerra sui mari. Galere, speronamenti ed abbordaggi erano anacronistici tanto per i vincitori quanto per i vinti. Pur seguendo direttrici opposte, entrambe le parti erano prigioniere di tradizioni e di tecniche sorpassate. A Lepanto tutti rimasero sconfitti, ma i fattori di attrazione e di spinta ancora una volta ritrovarono vigore nell’immaginario collettivo.

Vincenzo Foti

 Problematica del Mediterraneo: scontri di civiltà o di politiche geo–economiche?

Con il traumatico crollo delle Torri Gemelle dell’11 settembre, l’ordine mondiale salta: la vita internazionale cambia di 360 gradi. Per la prima volta la sicurezza territoriale degli Stati Uniti è stata violata da un nemico anomalo: il terrorismo islamico che fa capo alla setta terroristica di Bin Laden, che ha trovato la connivenza del regime dei talebani in Afganistan con seguaci ovunque. Ci si rende conto che il mondo non sarà più quello di prima!

E’ un trauma che sconvolge gli Usa e scuote il mondo intero, suscitando prese di posizioni contrastanti. S’innesca una serie di reazioni a catena che fa precipitare i problemi già in atto, soprattutto nel Medio Oriente e nel Mediterraneo: come la cruenta questione israelo–palestinese che dal 1948 condiziona tutta l’aerea mediorientale e il Mediterraneo, le connessioni tra il terrorismo arabo–islamico e i locali regimi arabi: dal Marocco all’Irak, passando per l’Algeria, la Libia di Gheddafi, l’Egitto, la Siria e gli altri paesi confinanti con gravi ricadute nei Balcani e nell’Unione Europea.

Il Mediterraneo diventa uno dei punti nevralgici di questo incontro–scontro di civiltà e culture dove, come indica S. Huntington nel suo noto saggio The Clash of Civilizations, sono a confronto civiltà cristiano–occidentale, civiltà arabo–islamica, civiltà slavo–ortodossa nonché minoranze etniche e religiose determinate a difendere i loro valori identitari.

La guerra del Golfo del 1991 aveva lasciato irrisolti pericolosi focolai di tensioni nel Medio Oriente e nel Mediterraneo, in primis il problema israelo–palestinese, la minaccia di espansione dell’Irak di Saddam Husseyn sull’aerea mediorientale per imporsi come leader delle aspirazioni alla rinascita del mondo arabo, con conseguenze imprevedibili sullo scenario geo–politico internazionale. Inoltre gli effetti dirompenti della globalizzazione economico–finanziaria sui paesi del Terzo Mondo cioè del sottosviluppo soprattutto sui paesi arabo–islamici, suscitano forti movimenti di protesta contro la leadership della superpotenza americana che non vuole limiti alla sua azione, nemmeno da parte dell’ONU e delle sue organizzazioni internazionali.

Dunque il terrorismo islamico scatena nuovi approcci e radicali mutamenti strategici da parte della geo–politica internazionale degli Usa: la “guerra mondiale” al terrorismo e la dottrina della “guerra preventiva” agli stati canaglia che lo sostengono, come dimostrano la guerra in Afganistan e quella in Irak.

Per contro i movimenti noglobal e i gruppi terroristici islamici dalle forti rivendicazioni identitarie e sociali, contrastano la globalizzazione economico–finanziaria sotto la guida del capitalismo americano. Essi vedono negli Stati Uniti d’America e nell’Occidente “il grande Satana”, cioè la causa di tutti i mali della terra: dall’ingiusta distribuzione delle ricchezze tra il ristretto numero dei paesi ricchi e la stragrande maggioranza dei paesi poveri (un ristretto gruppo – meno del 20% – di paesi ricchi sfrutta l’80% delle risorse mondiali), all’arroganza della sua supremazia militare, tecnologica, economica e culturale.

Tanto più oggi che i drammatici effetti della “guerra preventiva ed unilaterale” degli angloamericani in Irak, vengono percepiti come un’altra umiliazione per il mondo arabo–islamico, guerra camuffata con l’imperativo di riportare la libertà e la democrazia in quell’area.

A quali rischi corriamo incontro nel Mediterraneo? Perché cresce sempre più il divario socio–economico tra riva nord e riva sud di questo mare con il macroscopico fenomeno migratorio verso l’Unione Europea? Perché masse di gente da un punto all’altro del globo chiedono la pace nell’ambito del diritto internazionale?Ma la pace è un valore che si coniuga con la giustizia e la libertà: dovrebbe essere un compito permanente per tutti! E non può essere esportato con la forza da un solo paese come afferma Jesse Helms, presidente della Commissione per gli Affari esteri del Senato Americano dal 1995 al 2001, quindi protagonista chiave della politica estera americana: «Noi siamo al centro del mondo ed intendiamo restarci….Gli Stati Uniti devono dirigere il mondo portandovi la fiaccola morale, politica e militare del diritto e della forza, e servire da esempio a tutti i popoli».

In quest’ottica vale il monito enigmatico di F. Kafka, quando ci ricorda che: «Lontano, lontano da te, si svolge la storia mondiale, la storia mondiale della tua anima».

Michele Brondino

Le ragioni dell’odio[2]

Di fronte a fatti come quelli dell’11 settembre, al comprensibile orrore e alla legittima indignazione conviene affiancare un’approfondita riflessione sul brodo di coltura nel quale ha potuto crescere un odio tanto assoluto e distruttivo. Dire che l’islam non c’entra, che questa non è una guerra di religione né uno scontro di civiltà è saggio e opportuno, ma resta insufficiente e soprattutto non spiega perché proprio nel mondo musulmano siano situate le centrali operative e siano maturate le giustificazioni ideologiche di quanto è successo.

Certamente una grande potenza – specialmente se è rimasta l’unica in campo – ha numerosi nemici e contro di essa converge l’animosità di molti, ma non è un caso se alla fine chi ha scagliato materialmente l’attacco lo abbia fatto presumibilmente al grido di «Allahu akbar». Mi sembra banale, a questo proposito, richiamare che il suicidio, per l’islam come per molte altre religioni, sia considerato un peccato… la storia insegna che quando si combatte in nome della fede, si finisce per considerarsi in guerra contro l’impero del male e ogni riguardo per sé e per gli altri viene fatalmente accantonato. La questione di fondo è piuttosto quella di capire come mai l’islam possa essere così facilmente ed efficacemente strumentalizzato a questo scopo e fino a questi eccessi.

Da molti anni il mondo musulmano è interessato da una progressiva crescita e affermazione di correnti e movimenti islamici radicali che propugnano la loro opzione come l’unica in grado si risolvere, insieme ai molti problemi che affliggono questa parte del mondo, la sua stessa crisi di identità e di rispondere all’ansia di riscatto che la pervade. Così facendo essi pretendono di riproporre semplicemente il giusto rapporto tra religione e politica che l’islam implicherebbe necessariamente e che sarebbe stato alla base della straordinaria espansione e fioritura dei secoli d’oro della civiltà musulmana. Fino a che punto questa ideologia si riallaccia effettivamente alla tradizione islamica e in che misura è invece una sua reinterpretazione funzionale a situazioni recenti e contingenti? Parole d’ordine e strategie dei gruppi che se ne fanno promotori appartengono veramente a un presunto modello islamico originario o riproducono in chiave religiosa qualcosa di analogo a quanto fino a poco tempo apparteneva ai movimenti di tipo nazionalista o rivoluzionario? Perché queste due ultime impostazioni, prevalenti fino a non molto tempo fa, sembrano inesorabilmente entrate in crisi e quali sono i motivi della grande fortuna incontrata dal radicalismo musulmano che ne ha preso il posto? Se uno stato di malessere è innegabile, così come una preoccupante deriva si sta manifestando chiaramente, non altrettanto chiare sono le cause di questa involuzione che sta interessando l’islam nel suo complesso.

Più o meno esplicitamente da molte parti si sostiene la tesi che esso vi sia incline per sua stessa natura. In altre parole l’integralismo non sarebbe soltanto un’espressione deviata e aberrante di una tradizione religiosa che si poggia su tutt’altri fondamenti, ma troverebbe in questa delle cause predisponenti, se non addirittura i presupposti della sua stessa esistenza. Citare qualche versetto coranico e ricordare qualche tragico evento prodottosi nel corso della storia a sostegno di questa teoria è un gioco da ragazzi. A sostegno di questa impostazione si sono gettati, con zelo degno di miglior causa, alcuni “bei nomi” dell’intellettualità nostrana: basti pensare a Oriana Fallaci, fedele al suo personaggio, e a don Gianni Baget Bozzo che in un suo libro sull’islam ripropone sostanzialmente un approccio controversistico di stampo medievale del quale francamente non si sentiva la mancanza. Ma la medesima posizione non è assente anche presso studiosi di maggior spessore, come Giovanni Sartori, che ha dedicato un ampio saggio al tema dell’interculturalità, concludendo che i musulmani sarebbero di difficile se non impossibile integrazione nel nostro mondo poiché portatori di una visione delle cose radicalmente diversa dalla nostra e con essa del tutto incompatibile. Resta allora da spiegare come da simili presupposti si sia potuta sviluppare una civiltà plurisecolare che ha saputo dare ben altre prove di sé, anche nello specifico campo della “tolleranza” (benché allora non si chiamasse così) in materia di religione, concedendo per esempio uno statuto di “protezione” agli ebrei – così come ai cristiani, in quanto monoteisti – in tempi nei quali altrove non erano usati nei loro confronti altrettanti riguardi. Si tratta di un sistema ormai inadeguato e non più proponibile, che relega i non–musulmani in una posizione di secondo rango che cozza contro il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini, indipendentemente dalla fede di appartenenza. Per il tempo in cui esso fu ideato, tuttavia, è innegabile che esso costituisse qualcosa di notevole. Come si spiega? Il fatto è che quelli furono per l’islam i secoli del suo Rinascimento, seguiti e non preceduti – come accadde per noi – dai tempi oscuri della decadenza. Se l’epoca moderna ha poi innescato dinamiche di rinnovamento anche nel mondo musulmano, lo ha fatto a prezzo di una sudditanza prima politica (col colonialismo) e in seguito comunque economica e culturale rispetto all’Occidente. La felice mediazione che i primi musulmani seppero fare in passato tra la loro civiltà e altre grandi tradizioni, come la persiana e la bizantina, non si è altrettanto facilmente riprodotta per varie ragioni nei confronti della modernità. I rapporti di forza non erano più i medesimi, la fiducia in se stessi aveva lasciato spazio allo smarrimento, il peso di una tradizione inaridita e cristallizzata toglieva elasticità e baldanza…

Oltretutto l’Occidente, curandosi più dei propri interessi immediati che dell’immagine di sé che promuoveva presso gli altri popoli, si presentava con l’ambiguo volto di un predicatore di nobili principi cui era però assai poco fedele fuori da casa sua. In un primo tempo la tendenza a cercare di assimilare quegli aspetti della modernità che potevano essere utili e non troppo dirompenti in contesti sociali ancora piuttosto arcaici, comunque prevalse, nonostante la resistenza degli ambienti tradizionalisti. Ideologie come il nazionalismo e lo stesso socialismo furono adottate talvolta in modo entusiasta, ma lasciando irrisolto il nodo di una loro autentica assimilazione che si armonizzasse con valori e tendenze locali, invece che limitarsi ad affiancarli in una miscela instabile e potenzialmente esplosiva.

A peggiorare le cose si aggiunsero annosi conflitti locali – primo fra tutti quello arabo–israeliano – la cui mancata soluzione ha finito per esasperare gli animi. La serie infinita di insuccessi politico–militari, l’impressionate crescita demografica, le responsabilità di classi dirigenti incapaci e corrotte alimentano così un disperato bisogno di rivalsa. Se si tiene conto poi che in questa parte del mondo la democrazia, la libertà di associazione e di espressione, i diritti umani sono quasi del tutto assenti, non si fatica a capire come la religione resti l’unico linguaggio praticabile per esprimere il proprio disagio. Tanto più che gli stessi governi la utilizzano come strumento di legittimazione, alimentando nelle scuole di ogni ordine e grado il mito di un islam statico e atemporale, non interessato da alcuna evoluzione poiché perfetto e immutabile, quindi non criticabile al pari dei suoi tutori ufficiali. E’ logico quindi per chi combatte contro tali regimi e contro i loro alleati stranieri finisca per richiamarsi agli stessi principi, sia perché sono genuini e non d’importazione, sia perché risultano gli unici utilizzabili, sia infine per la loro efficacia: sono inossidabili, richiamano spontaneamente la simpatia della gente comune, forniscono una legittimazione almeno equivalente a quella dei governi in carica.

Se poi ricordiamo che non di rado questi ultimi hanno favorito i gruppi islamici radicali per liquidare altri oppositori interni di diversa matrice, potremo constatare che anche il cinismo di chi scherza col fuoco ha la sua importanza… L’appoggio fornito ai fondamentalisti in Afghanistan perché combattessero i russi rientra in questo genere di cose. I jet che si sono schiantati contro le Torri gemelle e il Pentagono venivano da questa galassia, così come le sconcertanti manifestazioni di giubilo di alcuni ricordano la simpatia che i cafoni del nostro meridione riservavano ai briganti: poco importava che si trattasse di ladri e assassini, poiché erano gli unici a contrastare in qualche modo l’arroganza di uno stato insensibile, estraneo e opprimente.

Dati questi presupposti c’è quasi da meravigliarsi del fatto che il radicalismo islamico sia comunque ancora un movimento minoritario rispetto alla massa dei fedeli dell’islam. Si tratta di oltre un miliardo di persone che vivono ed esprimono la loro appartenenza religiosa in forme diversissime: considerarli un blocco monolitico sotto il vessillo del fondamentalismo significherebbe dare a quest’ultimo l’immeritato titolo di rappresentante legittimo e ufficiale dell’intero islam. E’ esattamente ciò a cui punta, e potrebbero favorirlo in questo reazioni eccessive che indurrebbero a un compattamento del fronte musulmano…

C’è da augurarsi che per punire un colpevole non si finisca per guadagnarsi altri innumerevoli nemici, ostinandosi a intervenire sui sintomi, senza curare le cause ed evitando ancora una volta di affrontare il nocciolo della questione. Il modo migliore per rendere inoffensivo chi ci minaccia è, infatti, eliminare le cause dell’odio che esso, a torto o a ragione, nutre verso di noi. Ogni altra strategia sembra fatalmente destinata a fallire, e il fatto che in dieci anni si sia passati da Saddam Hussein a Osama bin Laden lo dimostra clamorosamente. Troppo poco si è fatto per restituire dignità e speranza ai popoli islamici… eppure dovremmo aver ormai imparato che quando qualcuno finisce per non aver più alcuna speranza, dobbiamo purtroppo prepararci ad averne paura.

Paolo Branca

Parole (di guerra) in movimento: “harb”, “qital” e “jihad”

Fiumi di parole scorrono giornalmente sul tema della Guerra e sul suo positivo opposto, la Pace. La maggior parte di esse si riferiscono a contesti arabo–islamici e s’incentrano soprattutto sul termine jihad, accompagnato quasi immancabilmente da un binomio, “guerra santa”, inteso, in maniera fin troppo scontata, come sua precisa traduzione.

In effetti, le cose non sono così semplici e nette. I termini arabi legati all’ambito della guerra sono diversi: harbqital e jihad sono i principali. Essi sono termini complessi, polisemici e non perfettamente traducibili. Inoltre, hanno subito nel corso dei secoli alcune importanti modificazioni di significato prima di giungere a noi ed essere ulteriormente trasformati. Non v’è dubbio che l’incomunicabilità tra il “Mondo Occidentale” e il “Mondo arabo–islamico” è connessa anche al modo in cui “transitano” parole e concetti da una parte all’altra. Il caso delle parole legate all’ambito semantico della “Guerra” è sicuramente emblematico.

Harb (e non jihad) è il termine che fin dal periodo preislamico ha più chiaramente e generalmente indicato la guerra nel mondo arabo. Nel Corano esso viene utilizzato per indicare sia la guerra in generale sia aspetti specifici della stessa. Dar al–Harb (la casa della guerra) è il mondo esterno alla Dar al–islam (la casa dell’islam), è il mondo che ancora non conosce l’ultima rivelazione di Dio, il mondo da conquistare, da ridurre territorialmente sempre più fino a che tutta la terra sarà Dar al–islam.

Qital è invece il termine che nel Corano viene massimamente utilizzato per indicare l’azione del combattere. Termine di largo uso nei versetti coranici come nel linguaggio parlato fino ad oggi, ma che, come harb, non ha subito quella rilettura in chiave radicale necessaria per destare l’interesse del Mondo occidentale e cristiano. Tanto è vero che harb e qital sono pressoché sconosciuti presso di noi.

Jihad è un termine invece abusato, male usato e storpiato. Basti ricordare che in arabo jihad è maschile mentre in italiano è diventato femminile: tanto è vero che si parla sempre della jihad e non del jihad (es. la jihad islamica e non il jihad islamico). Questo è comunque un fenomeno piuttosto comune, trascurabile e legato alla scarsa conoscenza del mondo arabo, in Italia come altrove. Quello che invece mi preme indicare in questa sede è che l’equazione “jihad = guerra santa” è un fenomeno piuttosto recente e non un elemento fondante della società islamica di tutti i tempi, e che tale equazione è l’unica che sia stata accolta a discapito della ricca polisemia del termine. Andiamo per fasi.

Nel mondo arabo preislamico jihad indicherebbe la sublime virtù di essere ucciso in battaglia per il proprio ideale o per la propria tribù per evitare l’umiliazione della resa o della morte naturale, senza implicare in alcun modo la santità della guerra o la concezione del martirio. Nel mondo islamico delle origini l’ideale da difendere diventa l’islam e la propria tribù diventa l’intera umma o comunità dei credenti. Ciò non porta tanto alla santificazione della guerra quanto alla sua legittimazione. Difatti, all’interno degli studi giuridico–teologici classici sul jihad il problema fondamentale è quello della guerra giusta o ingiusta anche in rapporto alla guerra offensiva o difensiva. La guerra santa non si pone all’orizzonte del credente comune e del dotto. A ciò si aggiunga un fatto estremamente significativo: nel Corano il termine jihad nell’accezione di “guerra” è presente solo e soltanto quattro volte. Molte più volte il termine jihad, e forme derivate dalla stessa radice, è presente nell’accezione di “sforzo in previsione di una finalità prestabilita”. Il jihad grande, è per il Profeta la lotta che avviene nell’intimo delle coscienze contro le proprie passioni, da contrapporre al jihad piccolo, che si combatte concretamente sul terreno, contro un nemico, come riassume Biancamaria Scarcia Amoretti in una recente pubblicazione.

Quando allora si comincia a delineare l’equazione “jihad = guerra santa” che giunge a fagocitare le altre nel linguaggio corrente e nell’immaginario collettivo dell’Occidente? Un primo caso isolato si verifica in epoca abbaside (VIII–XI secolo) ma non prende terreno. Poi, nel XVI secolo, un pensatore, Ibn Taymiyya, autorizza con alcune fatwa, il jihad contro i mongoli, investendolo di un carattere vicino alla sacralità. Ma più che il vero Ibn Taymiyya del XVI secolo bisogna attendere la lettura forzata del suo pensiero operata dai militanti radicalisti islamici del XX secolo. Il jihad, nei loro discorsi, diventa santo e diventa doveroso nei confronti di tutti coloro che non seguono la loro visione dell’islam. Nessuno è escluso, sia esso musulmano, cristiano, ebreo o pagano in contrasto ad una delle norme fondanti il mondo islamico: il rispetto per i credenti nelle religioni rivelate.

Queste poche riflessioni indicano l’ottica azzerante attraverso la quale è filtrato il mondo esterno. Tutto è semplificato, ridotto ai minimi termini, deformato e inglobato per servire alla comunicazione in “tempo reale”, globale e massificante. Tutto ciò è contrario ad ogni idea di rispetto delle diversità, la strada opposta alla reciproca comprensione. Facciamo quindi tutti insieme, a qualsiasi confessione religiosa apparteniamo, un grande sforzo, un jihad grande: studiamoci gli uni gli altri per conoscerci, per comprenderci, per dialogare, per dare un segno di pace al mondo.

Salvatore Speziale

Guerra di parole: “La sporca guerra”

Non sempre e non necessariamente le guerre si combattono con armi convenzionali. Soprattutto quando si tratta di esportare l’immagine di un paese sulla sponda europea del Mediterraneo. Il caso che presentiamo ci sembra esemplare.

Il 22 agosto 2001 l’agenzia stampa Aps diffondeva la notizia che il generale dell’esercito algerino Khaled Nezzar, un paio di giorni prima, aveva presentato una denuncia contro Habib Souaïdia, ritenendolo colpevole di diffamazione in seguito a un intervento che quest’ultimo aveva tenuto sul canale televisivo francese “La Cinquième”. Nel corso di una conferenza stampa svoltasi ad Algeri, l’ex ministro della difesa ha reso pubblica la decisione di perseguire uno «dei portavoce della campagna calunniatoria nei suoi confronti e in quelli dell’Armée». La denuncia è stata depositata presso il tribunale competente di Parigi.

Habib Souaïdia è l’autore de La sale guerre, pubblicato nel 2001 in francese (e quasi immediatamente tradotto in italiano con il titolo La sporca guerra, prefazione di Ferdinando Imposimato), definito, come apprendiamo dalla quarta di copertina, come «testimonianza di un ex ufficiale delle forze speciali dell’esercito algerino».

Sin dalla sua pubblicazione, il volume suscita parecchie polemiche: in esso l’autore, partendo dal suo punto di vista “privilegiato” di ex ufficiale, sembra non avere altro scopo che denigrare l’esercito. Non è nostro interesse qui verificare se le affermazioni di Souaïdia siano vere o false. Ciò che ci preme sottolineare è, da un lato, l’atteggiamento di totale accettazione di quanto contenuto nel volume da parte di tutti coloro che lo hanno presentato sia in Francia, sia nella versione italiana; dall’altro evidenziare come questo episodio metta a confronto e contrapponga due modi diversi di interpretare la società algerina contemporanea e il ruolo che in essa svolge l’islam e di come le due visioni contribuiscano ad alimentare “la pace e la guerra nel Mediterraneo” nel senso più ampio dell’espressione. Una testimonianza, in primo luogo, proprio perché tale, dovrebbe essere analizzata con le dovute precauzioni, ma in questo caso sembra che tutto ciò che afferma Souaïdia sia sfuggito a un’analisi scientifica.

Nel gennaio 2001, Yasmina Khadra pubblicava, per i tipi di Juillard L’écrivain, storia della sua infanzia nell’Armée, dov’è rimasto per trentasei anni, pubblicando comunque romanzi, prima di trasferirsi in Francia. Khadra, da vero scrittore qual è, definisce “romanzo” la sua testimonianza, che dedica «ai cadetti, con tutto il mio affetto».

Dal testo, che l’autore utilizza per rivelare la sua vera identità, emerge una visione dell’esercito completamente differente: critica, ma non denigratoria.

Dall’oggi al domani, da autore acclamato, Khadra diventa per i media francesi un ufficiale di esercito alle cui parole non si può credere. Perché questa diversità di trattamento? Perché questo testo non è stato tradotto (di Khadra, in italiano vengono tradotti solo i “gialli”)?

La reazione dei media al suo romanzo che, contrariamente alla linea di pensiero dominante non condanna l’esercito algerino è tale che egli in una sorta di scrittura auto liberatoria pubblica lo splendido L’imposture des mots. In qualche modo La sale guerre et L’écrivain vengono sempre contrapposti dai media francesi e L’imposture des mota tratta proprio del rapporto dell’autore con i media e l’inteligentzija. Nella vicenda Nezzar–Souaïdia, Yasmina Khadra difende l’esercito.

Al processo, conclusosi verso la fine del settembre 2002 con un verdetto a favore di Souaïdia interviene a sostegno di Nezzar un’altra voce contro, quella dello scrittore Rachid Boudjedra.

Da sempre sostenitore della laicità, ha appoggiato a suo tempo l’interruzione del processo elettorale. In FIS de la haine (non tradotto in italiano), del 1992, Boudjedra compie una lucida analisi della situazione algerina, prende decisamente posizione contro i “fondamentalisti” e, curiosamente citando un esempio simile a quello di La sale guerre, afferma:

«La première victime du premier crime commis par le FIS fut un bébé. Brûlé vif dans un incendie après que des militants fanatiques eurent mis le feu dans l’appartement où vivait une femme divorcée, avec son bébé âgé de quelques mois. C’était à Ouargla en 1989. […] Entre l’incendie du Reichstag en 1933 et l’incendie de ce petit appartement de Ouargla, dans le sud algérien, en 1989, il y a plus qu’une analogie. Il y a toute la barbarie du monde et sa démence».

Nel suo intervento a favore di Nezzar e dell’Armée in generale, pubblicato sul quotidiano francese Le Monde del 6 luglio 2002, l’autore afferma, che, pur non conoscendo personalmente Nezzar, ha inteso in tal modo difendere l’onore del suo paese, l’Algeria, e quello del suo esercito. Ricorda che sono stati proprio i rappresentanti dell’Armée a permettergli di essere vivo, oggi, dopo essere stato colpito da una fatwa emessa da integralisti algerini in cui veniva condannato a morte per pornografia ed eresia e di essere stato più fortunato di molti altri amici e colleghi che sono morti, pur se comunque protetti dall’esercito.

Nel caso de La sporca guerra, dunque, ben si applica il proverbio «ne uccide più la lingua che la spada»; per parte nostra siamo portate a riflettere sull’uso strumentale delle parole e delle traduzioni tempestive.

Jolanda Guardi

La pace come fondamento della rivelazione del Corano

Dalla radice S–L–M, il termine arabo salam indica pace, salvezza, ma anche integrità.

Dalla stessa radice di salam, si forma inoltre la parola islam che, in una corretta traduzione, esprime la sottomissione pacificata a Dio. Quindi, successivamente, salam può esprimere anche l’armonia tra gli uomini, sin dal saluto che Iddio raccomanda nel Corano ai credenti: «Quando vengono a te quelli che credono nei Nostri Segni, di’: «Pace su di voi (as–salam alaykum)! Il nostro Signore si è imposto la misericordia», Corano VI, Al An‘am, 54. Lo stesso Corano – si dice in uno dei suoi versetti (XCVII, Al–Qadr, 5) – è stato rivelato in una notte che «è pace fino allo spuntare dell’alba» (salamun hiya hatta matla’il fajr).

Nei rapporti con gli Ahl al Kitâb (le “Genti del Libro”) ossia i cristiani e gli ebrei, i musulmani verificano la possibilità, attraverso il vivificante esempio dell’ultima Rivelazione, di compiere quel pacifico appello per un ritorno alla pura adorazione dell’Unico Dio, secondo quanto è prescritto dal Corano:

Dì: «O gente della Scrittura, addivenite a una dichiarazione comune tra noi e voi: e cioè che non adoreremo altri che Dio, senza nulla associarGli, e che non prenderemo nessuno di noi come signori all’infuori di Dio». Se poi volgono le spalle allora dite: «testimoniate almeno che noi siamo sottomessi a Dio» (Corano, III, Al ‘Imrân, 64).

Infatti i fedeli del monoteismo abramico non hanno soltanto condiviso, nel corso dei tempi, una medesima appartenenza territoriale, anzi in principio essi condividono un’appartenenza di carattere spirituale. Qualora, infatti, si ricorra ad una lettura obiettiva del Corano si potranno rintracciare nel comune riconoscimento del Dio Unico, Il Quale si è provvidenzialmente manifestato in tempi diversi, le ragioni della fratellanza tra ebrei, cristiani e musulmani:

Dì: «Crediamo in Dio e in quel ch’è stato rivelato a noi e in quel ch’è stato rivelato ad Abramo e a Ismaele e a Isacco e a Giacobbe e alla Tribù, e in ciò che fu dato a Mosè, e a Gesù e ai Profeti dal loro Signore senza far distinzione alcuna tra loro, e a Lui noi tutti ci sottomettiamo» (Corano, III Al ‘Imrân, 84).

E non disputate con la Gente del Libro altro che nel modo migliore, eccetto quelli di loro che sono iniqui, e dite: «Crediamo in quello che è stato rivelato a noi e in quel che è stato rivelato a voi e il nostro Dio e il vostro Dio non sono che lo stesso Dio, ed è a Lui che ci sottomettiamo» (Corano, XXIX, Al ‘Ankabût, 46).

I maestri dell’islam hanno sempre sollecitato i credenti a una discussione proficua con gli ebrei e i cristiani al fine del riconoscimento gioioso della gloria dell’Altissimo che è ben al di sopra delle strumentalizzazioni sterili che spesso caratterizzano le azioni umane. L’uomo non deve cedere mai alla tentazione di credere «di bastare a se stesso» (Corano, XCVI, Al ‘Alaq, 7), ma, al contrario, occorre che coltivi il timore (taqwa) del suo Signore potendo così nel Suo nome e non nel nome di se stesso, lontano da ogni arroganza e con la più retta delle intenzioni, adempiere a quegli obblighi rituali e a quel ricordo iterato di Dio (dhikruLlah) che fa scendere la vera Pace trascendente nei cuori.

Nella tradizione islamica, uno dei novantanove “più bei nomi di Dio” è appunto As Salam (ovvero la Pace), e non sarà quindi fuori luogo ribadire che la Pace intesa come Presenza di Dio nel cuore dei credenti è chiamata Sakina, denominazione che la fa identica alla Shekinah ebraica. La Sakina, posta al centro dell’essere, rappresentato dal cuore in tutte le principali tradizioni, comporta la Grande Pace ovvero l’annullamento nel Principio Trascendente che informa con il Suo spirito (Ruh) tutte le creature. Si tratta in fin dei conti di quella stessa Pace di cui ha parlato ai suoi discepoli Gesù: ‘Isa ibn Maryam, come viene chiamato, nel Corano, il Messia, atteso dai cristiani e dai musulmani nella sua seconda venuta, e dagli ebrei nella prima, per la fine dei tempi.

Dario Tomasello

La pace è possibile (nella giustizia)

Quando si parla di pace e guerra, mi vengono in mente alcuni princìpi fondamentali, banali e ovvî forse, ma cui non mi pare possibile derogare e che è bene ricordare. Da tempo mi sono fatto, ad uso personale, una sorta di scaletta in materia. Vi accenno rapidissimamente:

–La vera pace (ordine e serenità sociale) è sempre frutto della giustizia (unicuique suum, secondo un’equa distribuzione dei beni, dei servizi e delle risorse). Una pace senza giustizia è impossibile o intrinsecamente instabile e solo apparente. Bisogna dire non si vis pacem para bellum, ma piuttosto si vis pacem para iustitiam.

–Costituisce necessaria premessa di un ordine sociale (oggettivo o intersoggettivo) giusto e pacifico l’atteggiamento individuale (soggettivo e interiore) di non violenza.

–La non violenza non è semplicemente un fenomeno materiale, ma una condizione mentale, psicologica e spirituale. Sicché v’è sempre il rischio di essere solo formalmente (per esempio: rifiuto delle armi), ma non sostanzialmente (per esempio: aggressività verbale), “non violenti”. Il vero non violento crede che la lotta per la giustizia deve passare attraverso gli strumenti più persuasivi e meno invasivi possibili: a conti fatti sono i più efficaci, anche se sembrano i meno rapidi.

–Purtroppo la storia e l’esperienza ci insegnano che – esistendo sempre, in ogni contesto umano, fenomeni di devianza sociale – qualunque sistema di organizzazione sociale, anche il più tollerante e rispettoso dei diritti della persona, non può fare a meno di prevedere, in casi limite, l’uso di forme di violenza. Ma l’unica violenza legittima è quella, estrema (legittima difesa dalle forme di aggressione interna: rapine, stupri, omicidi, etc.), posta in essere sul piano dell’ordine pubblico interno ad opera dello Stato. Per questo lo Stato ha weberianamente il monopolio dell’uso legittimo della violenza ed essa si chiama “forza”.

–Riesce invece difficile applicare alla lettera il criterio della “forza” sul piano dell’ordine pubblico esterno, ossia internazionale: ogni forma di violenza, in questo caso, rischia di tradursi in un massacro, che spesso non coinvolge solo i militari coinvolti. In questo senso, oggi più che mai, probabilmente non è riproponibile la dottrina giusnaturalistica della guerra giusta (bellum iustum): semmai vale il detto, opposto, secondo cui bellum omnino excludendum est.

–Ben diverso è il caso delle operazioni di “polizia internazionale” – di interposizione o pacificazione militare – volute per garantire o portare la pace, ma esse hanno un senso solo se mirano a conseguire un ordine giusto, sono accompagnate da idonei strumenti di sostegno economico–finanziario e culturale e soprattutto se sono legittimate da risoluzioni ONU. In tale quadro, la “forza” – solo se, e nella misura in cui, è esercitata correttamente – gode di legittimazione etica e giuridico–politica (internazionale).

–Tuttavia, sempre la storia e l’esperienza confermano che le tecniche “non violente”, volte a conseguire la giustizia, contrariamente a quanto di solito si pensa, spesso sono state efficaci, nelle più svariate condizioni e alle più distanti latitudini. Certo, esse esigono aggregazioni sociali (comunità) molto mature e persone assai coraggiose (per quanto sia paradossale, bisogna avere più coraggio ad essere non violenti che violenti), oltre che fortemente motivate. Alcuni esempi possono aiutare:

  1. in Danimarca, durante la II guerra mondiale, buona parte del popolo ha “resistito” all’occupazione nazista con diverse forme di lotta non violenta: boicottaggi nelle fabbriche e solidarietà con gli ebrei (quando i nazisti obbligarono la minoranza ebrea a portare la fascia gialla “Juden”, tutti i danesi – il re in testa – l’indossarono: si può deportare un popolo?);
  2. in India, Ghandi e i suoi seguaci hanno avuto la capacità di far cessare il secolare dominio coloniale inglese, che sembrava inattaccabile, con ben note tecniche non violente (centinaia di indiani seduti sui binari, digiuni, etc.);
  3. in Spagna, il passaggio dalla dittatura di Franco al regime liberaldemocratico e costituzionale è avvenuto, grazie all’equilibrio di Juan Carlos, senza alcuna violenza;
  4. in Polonia, in forme non violente: attraverso il sindacato Solidarnosch, Lech Walesa – forte di un vasto consenso popolare – è riuscito a trasformare un Paese totalitario e oppressivo in un regime democratico–costituzionale;
  5. nelle Filippine, la dittatura di Marcos è stata spazzata via da folle non violente guidate da una piccola donna: Corazon Aquino.
  6. in Sudafrica, Nelson Mandela – rigettando ogni forma di violenza (pur avendone subito parecchia) – è risuscito a realizzare la transizione dal regime separatista–razzista a quello costituzionale.

Potrei continuare. Ma quel che conta è soltanto la comune consapevolezza sottesa agli esempi ricordati: è possibile lottare per un mondo più giusto senza necessariamente ricorrere a forme di violenza. La violenza, infatti, inevitabilmente genera altra violenza e altro dolore. È una spirale diabolica con cui si crede di poter curare omeopaticamente il male… con il male.

Perché questa – che sembra, ma non è, un’utopia – diventi praticabile, bisogna accettare categorie concettuali e spirituali alle quali non siamo più abituati e di cui invece abbiamo tutti disperatamente bisogno: capacità di sacrificio, pazienza, comprensione, compassione, perdono, misericordia. In una parola: amore (non tanto nel senso dell’eros, ma dell’agape). Il Mediterraneo, culla di tutte le più importanti civiltà e delle tre principali religioni monoteiste, è la sede “naturale” per sperimentare, tutti insieme, questa presunta utopia. La pace è possibile, basta volerla. Sul serio.

Antonino Spadaro

 Un leader curdo a Catanzaro

Badolato è salito agli onori della cronaca alcuni anni fa per aver dato ospitalità a centinaia di curdi approdati sulle coste calabresi lasciando alle spalle l’Iraq e le guerre che insanguinano il Mediterraneo orientale. Decine di curdi hanno messo le radici in queste contrade. Probabilmente né i curdi né i calabresi sanno che a pochi chilometri di distanza, a Catanzaro, ha vissuto l’ultimo periodo della sua vita Sharif Pascià. Il famoso esponente curdo era nato nel 1865 a Sulaimaniya, nell’attuale Kurdistan iracheno. Era un rampollo della prestigiosa famiglia Bâbân, si stabilì a Istanbul ed ebbe accesso alle alte cariche ottomane. Fu nominato generale nell’esercito e nel 1898 inviato come ambasciatore dell’Impero Ottomano a Stoccolma.

La prima guerra mondiale determina la rottura degli equilibri nel Medio Oriente, che si trova al centro dello scontro tra le potenze occidentali in lotta tra loro per la spartizione dell’Impero Ottomano e lo sfruttamento delle risorse, soprattutto petrolifere.

Con la dissoluzione dell’impero, Sharif Pascià, che era stato contrario alla partecipazione ottomana nel conflitto mondiale, interviene come rappresentante curdo alla Conferenza di pace di Parigi nel 1919 per avviare a soluzione la questione curda per l’autonomia se non per l’indipendenza del Kurdistan. Poiché curdi e armeni rivendicano in parte le stesse terre che attualmente costituiscono l’area sud–orientale della Turchia, cerca di risolvere l’antagonismo che indebolisce le posizioni di entrambi.

Un accordo armeno–curdo viene raggiunto a Parigi il 20 dicembre 1919, tra Sharif Pascià e il rappresentante armeno Boghos Nubar Pascià. Questo accordo rappresenta un momento fondamentale nella storia dei due popoli. In seguito all’accordo, armeni e curdi attuano una strategia comune per il perseguimento dell’indipendenza e la salvaguardia dei propri diritti.

Il trattato di Sèvres, siglato il 10 agosto 1920, sebbene rimasto lettera morta, imprime una svolta decisiva al problema curdo. Per la prima volta nella storia un atto diplomatico riconosce negli articoli 62, 63 e 64 il diritto del popolo curdo all’indipendenza.

Il trattato di Losanna, siglato il 24 luglio 1923, segna il tradimento degli impegni assunti precedentemente dalle potenze europee. Viene insabbiato il progetto di un Kurdistan indipendente, demandando alla Società delle Nazioni la questione di Mosul, la regione petrolifera rivendicata da turchi e inglesi. Mosul viene annessa all’Iraq nel 1925.

Sharif Pascià si ritira a vita privata. Conduce una vita brillante a Monte Carlo con la consorte, la principessa Emine, zia del futuro re egiziano Farûq. Negli anni Trenta Sharif ritiene che il fascismo possa imprimere una svolta alle speranze del popolo curdo. Cerca di contattare segretamente Benito Mussolini tramite il Consolato italiano a Nizza con una missiva “confidenziale” dell’8 dicembre 1936.

Nel 1942 torna alla carica con due lettere inviate al “duce” per sensibilizzarlo sul problema curdo con iniziative diplomatiche poi cadute nel vuoto. Nella lettera del 27 luglio 1942, Sharif Pascià rivela di essersi recato a Parigi su invito del governo tedesco.

Può sconcertare la proposta di mettere a capo del Kurdistan «un capo pio e con esperienza come l’ex Kédive egiziano ‘Abbas II». Questo piano riflette quanto Sharif Pascià fosse legato alla concezione ottomana dello Stato, e il suo isolamento nel movimento nazionale curdo. La scelta sull’ex re ‘Abbâs II (1874–1944), era probabilmente motivata dalla parentela con la famiglia reale egiziana. La storia ha preso altre direzioni come ben sappiamo.

Ma questo curdo nato ottomano, generale e abile negoziatore a Sèvres, rappresenta anche un legame tra le varie sponde del Mediterraneo, da Istanbul all’Egitto, da Monte Carlo alla Calabria. Nel 1948 la figlia prediletta Melek sposa il conte italiano Carlo Pecorini Manzoni e si trasferisce a Roma. Nel 1950 Sharif Pascià segue la coppia nella capitale italiana, poi si stabilisce con i familiari a Catanzaro dove muore il 22 dicembre 1951. Secondo alcune voci all’epoca la salma sarebbe stata traslata in Egitto per desiderio della famiglia reale.

 Mirella Galletti

[1] Questo contributo, giunto in ritardo per la stampa della brochure, viene pubblicato per la prima volta in questa sede.

[2] Questo contributo non poté essere inserito nella brochure di quell’anno perché giunto troppo tardi al curatore.

premio 2003

autorità premio

 

8

Anno 2004

La multiculturalità e la Calabria[1]

L’Università per Stranieri “Dante Alighieri” di Reggio di Calabria

L’Università per Stranieri Dante Alighieri, avendo sede a Reggio di Calabria, al centro di tutte le direttrici di traffico e di civiltà operanti nel Bacino del Mediterraneo è convinta che il modello europeo – che è, poi, un modello euro–mediterraneo, potendosi cogliere profonde suggestioni mediterranee anche presso i popoli europei non lambiti da questo mare – può essere utilizzato quale risposta alla più grande questione che il processo di mondializzazione suscita nell’era contemporanea: come si fa a convivere e collaborare pacificamente senza cancellare le differenze, ma anzi valorizzandole in quanto differenze. Piuttosto che parlare, come pretendono alcuni pensatori contemporanei, di una semplice coesistenza tra “stranieri morali”, tra loro non comunicanti, anche se gettati dalla sorte su di un’unica isola inospitale, è molto più costruttivo evocare la figura dell’arcipelago, in cui tante isole, ognuna con le sue caratteristiche, sono lambite però dello stesso mare e fanno parte di un medesimo insieme.

Nella prospettiva di quel che Giorgio La Pira definiva un “servizio al mondo”, l’Università per Stranieri Dante Alighieri di Reggio di Calabria, già prima in convenzione con l’Università di Messina, e successivamente al riconoscimento legale, come propria autonoma offerta formativa, a partire dal novembre del 2007, ha aperto i Corsi Universitari di Laurea in Scienze e Tecniche dell’Interculturalità Mediterranea, con due indirizzi di studio, uno per Mediatori Linguistico–Culturali, e uno per Docenti di Lingua Italiana a Stranieri.

Quale sia l’importanza della figura del Mediatore Linguistico–Culturale è sempre più evidenziato dalla costante e continua ascesa del numero di immigrati in Italia e dalle difficoltà comunicative che emergono tra le lingue e culture diverse, al punto da determinare molte volte gravi conflitti interiori ed anche situazioni di violenza e di sfruttamento. Queste circostanze si accentuano e si moltiplicano quando l’immigrato diventa anche utente delle strutture di servizio del nostro Paese: uffici pubblici, scuole, ospedali, consultori, centri di accoglienza, carceri etc. Quasi sempre il nostro operatore scolastico, sanitario, carcerario, o altro che sia, non è in grado di superare le difficoltà provocate alla sua professionalità dalla mancata conoscenza della diversa cultura e civiltà dell’utente immigrato.

Parallelamente, anche il Corso di Docenti di Lingua Italiana a Stranieri offre un titolo universitario, che diverrà sempre più ricercato nell’immediato futuro, non solo per chi intenda diffondere la lingua e la cultura italiana all’estero – venendo incontro ad una richiesta sempre più pressante in ogni parte del mondo, come viene segnalato dai responsabili degli Istituti Italiani di Cultura – ma anche per chi vorrà dedicarsi al compito di formare il personale delle scuole e delle università italiane, dove la presenza di allievi stranieri è in continuo aumento e si richiede per essi una metodologia del tutto particolare nell’insegnamento della nostra lingua e nel modo con cui farli accostare alla nostra cultura e civiltà.

 Salvatore Berlingò

[1] La brochure di quest’anno esordiva con un intervento del presidente Stefania Vasta Iuffrida di cui si riportano qui di seguito i punti relativi all’argomento: «Il tema “La multiculturalità e la Calabria”, scelto per questa ottava edizione, risulta argomento dibattuto nella nostra regione laddove sono state realizzate esperienze di contatto interculturale e posti in essere interessanti progetti di studio legati alla multiculturalità. Un dibattito sul futuro della Calabria non può prescindere dai fenomeni di scambio culturale di matrice mediterranea».

Storia dei paesi islamici a Reggio Calabria

1 novembre 2001: inizia il primo corso di Storia dei paesi islamici dell’area dello stretto. Un appuntamento carico quanto mai di significati e di aspettative dopo quanto era accaduto a New York una manciata di settimane prima.

Polo di Reggio Calabria dell’Università di Messina: due nuovi corsi di laurea al passo con i tempi, Docente di italiano a stranieri e Scienze e tecniche dell’interculturalità mediterranea (più semplicemente mediatore linguistico–culturale). Un centinaio di studentesse e studenti “costretti” a seguire: una studentessa musulmana, una di origine ebraica, qualche cristiano–protestante del nord dell’Europa, un gruppo cristiano–ortodosso proveniente dalla ex–Jugoslavia e una maggioranza cristiano–cattolica di origine italiana e spagnola. Osservanti, laici, indifferenti, atei. Studentesse e studenti dai 18 ai 50 anni, dagli appena diplomati ai lavoratori al secondo corso di laurea. Tutti immersi nella cronaca, bersagliati dalle immagini terrificanti dell’11 settembre. Tutti lontani dalla storia. Tutti allontanati dalla storia, come si vuole che sia.

Una sfida allora, parlare dell’imprescindibile conoscenza delle origini dell’islam per capire il mondo attuale nel momento in cui i media, seguendo pedissequamente un sentiero ben preciso indicato da noti politologi, opinionisti e scrittori occidentali, continuano ad affermare che l’11 settembre 2001 deve essere considerato come momento “assoluto”, che il passato non può fornire risposte e motivi, che la storia ha iniziato un nuovo corso, sul vuoto in cui si ergevano le torri gemelle.

Una lotta dunque, criticare l’appiattimento dei punti di vista, l’azzeramento della visuale al solo elemento eclatante, all’evento in sé, privo di un prima e di un dopo: il “rattrappimento” della storia. La storia come successione di eventi eclatanti, da prima pagina, anzi, la cronaca che diventa storia, una storia costretta a smentirsi quotidianamente sotto i colpi di altri eventi. Che futuro può avere?

Una prova difficile quindi, parlare di storia di una civiltà che non segue le categorie concettuali, la visione del mondo, le periodizzazioni proprie della nostra. Una civiltà che non ha un “Medioevo”, sebbene qualcuno parli di “Medioevo” del mondo islamico per indicare quello che nell’altra sponda del Mediterraneo succedeva durante il nostro “Medioevo”, oppure, in senso peggiorativo, per indicare un perenne “Medioevo” in cui vive il mondo islamico sempre uguale a se stesso, sempre rivolto al passato. Una civiltà che non vive gli eventi più significativi del nostro passato come noi li abbiamo sempre immaginati con la complicità di storici poco obiettivi: l’assoluta marginalità delle crociate nella loro storia, ad esempio.

Un’impresa quanto mai ardua, tracciare le linee principali della civiltà islamica (religione, diritto, tradizioni…) e della sua storia attraverso cinque continenti e quindici secoli in sole 40 ore di lezione. Mettere in discussione il rassicurante, permeante e impermeabile eurocentrismo di cui tutti ci siamo nutriti sui banchi di scuola e sui banchi da lavoro e proporre una visione alternativa, seducente ma anche disorientante: la realtà multiforme e variegata dell’“islam” plurale, che si realizza diversificandosi nel tempo e nello spazio.

Un vero azzardo, parlare di tolleranza religiosa, di rispetto delle differenze etniche, di convivenze interreligiose realizzate nel passato nel mondo islamico, un vero rischio parlare di prospettive di pace da intravedere nel futuro, quando la legge della forza, dell’imposizione, della prevenzione e del rifiuto assoluto, legittimato da molti dopo quell’11 settembre, sembra oscurare le menti di chi governa i governi ma non sempre i cuori della gente, sembra invitare tutti a parlare solo di guerra.

Ecco perché a Reggio Calabria La Storia dei paesi islamici è stata[1] La Storia dei paesi islamici dall’avvento dell’islam all’oggi. Un insegnamento aperto al dibattito, a chi vuole creare “ponti” tra i popoli, a chi vuole sapere, a chi vuole capire, a chi la pensa in maniera diversa. Soprattutto aperto a chi pensa.

Salvatore Speziale 

Modelli multiculturali vissuti in Calabria

Nella storia della società calabrese i flussi migratori hanno scritto un capitolo di estremo interesse; in genere le ricerche si sono soffermate sulle correnti “in uscita”, su coloro che dalla Calabria andavano via oppure vi ritornavano dopo un periodo più o meno lungo, dando vita al fenomeno degli “americani”. Ma sulla regione – e in sempre maggior misura nei tempi più recenti – si sono indirizzati anche flussi “in entrata”, per i quali gli studi sono inferiori in numero.

Eppure i modelli messi in campo sono tutt’altro che disprezzabili. Ad esempio, il modello endoculturale, apertamente xenofobo, appare a un primo sguardo scarsamente praticato nella storia calabrese. E bene hanno fatto la società e le istituzioni nei secoli a rifiutarlo, in quanto destinato al fallimento e comunque autolesionista poiché proietta un’ombra razzista anche all’interno della stessa comunità devota a quel modello.

I calabresi hanno preso atto nei tempi passati e col tempo che uomini e donne migrano da sempre e che nessuna “muraglia” – sia essa fatta di pietra sia costruita con i corpi – è mai riuscita ad arrestarne il flusso. Per anestetizzare la xenofobia e il razzismo si afferma così il modello multiculturale, un modello di accoglienza, che non va però idealizzato. In esso, infatti, si declama il culto della convivenza, ma ciascuna comunità viene spesso relegata in spazi separati o tenuta ai margini. La declamazione “democratica” spesso nasconde anche una “capitalizzazione” della rendita di posizione dei “locali” rispetto ai “nuovi venuti”. Gli emigrati calabresi negli Stati Uniti conoscono benissimo il funzionamento di questo modello, che li ha utilizzati come manodopera a basso costo e “volenterosa”, tenuta nei quartieri delle Little Italies, addirittura solo in certe strade, oppure nelle baracche dei cantieri delle grandi opere.

Ci manca a oggi una serie di studi che mettano in comparazione questa esperienza storica, vissuta dagli emigranti calabresi, all’interno del modello multiculturale che ancora informa diverse società occidentali – non solo gli Stati Uniti – da una parte e, dall’altra, l’esperienza degli immigrati “forestieri” giunti alle sponde calabresi. Convivenza non sempre vuol dire eguaglianza e il fatto di poter perpetuare lingua e cultura della società d’origine potrebbe anche significare una sorta di passo del gambero, con la memoria e la nostalgia che fungono da viatico per il nuovo, duro cammino nella terra straniera.

In ogni caso quel che accade in Calabria non può – oggi – mai essere disgiunto dalla richiesta forte che, nel mondo della globalizzazione, alla libera circolazione dei capitali e delle merci si accompagni sempre la libera circolazione di donne e uomini.

Giuseppe Restifo 

La scuola: un ponte verso il mondo arabo–islamico 

A livello educativo, in una società sempre più multietnica e multiculturale, dove le diversità sembrano scontrarsi più facilmente che incontrarsi, si pone la necessità di promuovere presso le nuove generazioni l’accettazione delle differenze, degli atteggiamenti e dei punti di vista dell’Altro. Che questo “Altro” sia straniero, di un’altra religione o semplicemente una persona che la pensa diversamente da noi, poco importa. Dalla percezione negativa dell’“Altro” può, infatti, scaturire l’indifferenza, la paura, l’intolleranza o addirittura il razzismo; al contrario, una percezione positiva può suscitare un incontro nuovo, un cambiamento, un avvicinamento.

Per conoscere meglio l’“Altro”, l’Istituto Tecnico Commerciale Statale “V. De Fazio” di Lamezia Terme partecipa da anni ad iniziative culturali organizzate da enti pubblici, associazioni private e altri istituti scolastici atte a favorire la crescita sociale e civile dei propri allievi e docenti e, quindi, della comunità lametina. Nell’ambito di tale spirito di collaborazione è stata bene accolta la proposta della Commissione Straordinaria del Comune di Lamezia Terme di fare assistere degli alunni allo spettacolo Le crociate viste dagli arabi, rappresentato al Teatro Grandinetti della nostra città dalla compagnia Schegge di Nordafrica, di Genova. Affinché la partecipazione a tale iniziativa non costituisse solo un’occasione isolata, ma anche un’opportunità di reale approfondimento, numerosi alunni, prima dello spettacolo, hanno svolto ricerche tramite internet e testi specialistici. Il materiale trovato è stato distribuito affinché tutti gli alunni venissero a conoscenza dell’evento e coloro che avessero deciso di partecipare disponessero di materiale utile sul mondo arabo–islamico. L’iniziativa ha avuto senz’altro un impatto positivo. Lo spettacolo, infatti, è stato seguito con interesse da alcune centinaia di alunni e da numerosi docenti. Decine di essi, inoltre, hanno partecipato ad un interessante ed animato incontro–dibattito con gli attori e gli organizzatori della rappresentazione presso la sede del nostro istituto.

Come in un effettivo work in progress le discussioni successive e il bilancio positivo dell’iniziativa hanno costituito un forte stimolo ad approfondire, all’interno dell’istituto, la conoscenza della civiltà islamica, facendo svolgere alla scuola il compito di mediare tra diverse culture, di animare un continuo, produttivo confronto fra differenti modelli, di svolgere la sua funzione di “ponte” tra culture. A tale scopo si è ritenuto opportuno organizzare degli incontri–dibattiti nei mesi conclusivi dell’A.S. 2003–2004, in modo che la tematica trattata potesse essere “letta” nelle sue implicazioni storiche, politiche, religiose e culturali.

Gli argomenti: Islam tra fede e politicaIl mondo islamico e la letteratura italianaI musulmani in CalabriaL’Italia coloniale e il mondo islamico e L’Islam nella società di oggi, sono stati trattati dai professori Francesco Vescio, Rosa Spena, Vincenzo Villella, Francesco Mastroianni e Pino Gullà, docenti del nostro istituto. Il tema Cultura araba e cultura occidentale, negli specifici interventi: Ancora Eurocentrici. No, grazieL’integrità delle tradizioni religiose tra integralismo e integrazione e Sguardi che non si incrociano: cultura occidentale e cultura araba prima e dopo la “nahda”, è stato affrontato da Giuseppe Restifo, ordinario di Storia Moderna, Dario Tomasello, docente di Storia dell’islam e Salvatore Speziale, docente di Storia dei paesi islamici, tutti e tre dell’Università degli Studi di Messina. L’impegno dei relatori e l’attenta partecipazione di alunni e docenti hanno fatto sì che le tematiche sviluppate diventassero oggetto di vivaci dibattiti che spesso si prolungavano oltre le ore stabilite spingendo i presenti ad ulteriori approfondimenti bibliografici.

Attraverso questa esperienza certamente è cambiato molto per gli alunni e i docenti del “De Fazio”, che hanno seguito i seminari, nell’approccio con le problematiche che oggi l’islam pone al mondo intero. Infatti, gli incontri sono stati vissuti come momenti di sensibilizzazione, educazione e discussione delle problematiche della convivenza tra culture diverse e, i tempi lunghi, hanno consentito uno scambio fattivo di idee a dimostrazione del grande interesse suscitato. Sarebbe auspicabile, quindi, che nel territorio lametino si organizzino in futuro attività simili per consentire ad un più vasto pubblico di interessarsi a questioni così vive e cruciali all’inizio del nuovo millennio. In ogni modo il discorso è avviato…

Costanza Falvo D’Urso e Francesco Vescio

Integrazione e intercultura

La presenza di immigrati nel lametino è un fenomeno in continua crescita ed ogni giorno aumentano le richieste di permessi di soggiorno e le istanze di ricongiungimento a familiari già presenti nel nostro territorio da parte di quelli rimasti nei paesi di origine.

La nostra è una società multiculturale, multietnica o pluriculturale che impone l’apertura verso una nuova mentalità, verso nuovi principi educativi. Tra le tante istituzioni che si adoperano a migliorare la qualità dell’integrazione, la scuola riveste un ruolo primario quale agenzia educativa che forma le generazioni future, siano esse italiane o straniere. Molti sono gli istituti scolastici che accolgono studenti immigrati e fra questi anche l’Istituto comprensivo statale di Gizzeria che ha il privilegio di essere uno degli istituti con il più alto tasso di alunni immigrati della nostra regione. Nei plessi di Gizzeria Lido e Mortilla, infatti, si concentra il maggior numero di stranieri presenti sul territorio, in particolare marocchini, che in Calabria sono circa 5.000. Per difendere i diritti dei marocchini sono sorte da alcuni anni diverse associazioni, tra cui una che ha proprio sede legale a Gizzeria Lido, che, insieme alla moschea ed al mercato, rappresentano il fulcro della cultura araba in Calabria.

La cospicua presenza di allievi stranieri è un problema scolastico rilevante che impone nuove metodologie e strategie didattiche al fine di formare quel modello di cittadino che realizza una vera integrazione politica e culturale nel pieno rispetto delle diversità. L’educazione interculturale, quindi, diventa mediazione tra culture diverse, accettazione delle diversità come risorsa e confronto produttivo e non riduttivo, promozione delle capacità di convivenza, superamento dell’etnocentrismo. Il cammino non è facile, ma certamente non sarà vano se l’obiettivo principale diventerà la valorizzazione delle culture d’origine degli studenti stranieri nella loro singolarità e globalità. Gli alunni sono diversificati e allora la scuola dovrà cercare sempre più di creare una comunità aperta in cui ciascuno possa trovarsi a suo agio. La disponibilità ad arricchire la sensibilità pedagogica viene recepita positivamente dagli allievi italiani per cui la pedagogia interculturale può veramente diventare più funzionale in quanto mette in comunicazione soggetti “diversi” e “lontani”. Così colui che viene educato interculturalmente in modo equilibrato, accetta l’“altro” avendo consapevolezza della propria diversa identità culturale. Molto resta ancora da fare ma l’apertura degli orizzonti culturali promossa a scuola può fare superare le barriere e gli ostacoli che ancora si frappongono per un’autentica integrazione su tutti i livelli.

Elisabetta Saladino

Incontri Mediterraneiun ponte tra culture

Ventisette anni fa[2] nasceva in Calabria una rivista destinata ad avere una lunga storia: Incontri Meridionali. Nasceva grazie alla favorevole congiuntura di interessi di un editore calabrese e di un gruppo di studiosi, storici per la maggior parte, dell’Università di Messina. Una rivista aperta sia in senso disciplinare, sia in senso geografico. Aperta quindi agli apporti di tutte le scienze sociali, così come a tutti i legami che il Meridione d’Italia intratteneva con il mondo mediterraneo ed extra–mediterraneo. Aperta inoltre non solo ai grandi nomi della storiografia, dell’antropologia, dell’economia, della demografia e della sociologia, sia italiani che stranieri, ma anche alle piccole e importanti promesse che cercavano di mettersi in luce nel corso dei decenni di vita della rivista stessa.

Qualche anno fa, nel 1999, la rivista ha mutato in parte il nome e in parte la sostanza: con rinnovato entusiasmo è nata Incontri Mediterranei. Questo mutamento di nome è un segno indubitabile del tempo che cambia, e dei nuovi obiettivi che specialisti di un’ampia gamma di discipline hanno posto dinnanzi a loro. Il Mediterraneo, con tutte le sue somiglianze e diversità, con il suo bagaglio di violenti contrasti e di aspirazioni pacifiche, con tutti i suoi centri e le sue periferie, con tutti i suoi “Mediterranei”, diventa il target degli studiosi che intervengono periodicamente o sporadicamente con le loro pubblicazioni scientifiche. Il Meridione d’Italia, Calabria e Sicilia in primo luogo, appare così, come in effetti è, uno dei centri del Mediterraneo più interessanti da seguire nel suo secolare interagire con gli altri centri e le altre periferie. A metà strada tra l’Europa continentale e l’Africa settentrionale, fra Gibilterra e i Dardanelli, nel bel mezzo dei “nord” e i “sud” del mondo, divisa tra l’Occidente e l’Oriente, questa parte d’Italia cerca di riscoprire, dopo tempo immemorabile, una sua vocazione mediterranea destinata ad avere la meglio sulle mode effimere che tuttora, tuttavia, cavalca.

L’apertura al mare, e a tutto ciò che lo circonda, implica pertanto una disposizione positiva nei confronti dell’Altro, una spiccata tendenza all’incontro, un forte desiderio di abbattere barriere fisiche e mentali: implica necessariamente la visione di un mare che unisce più che dividere. Questa posizione di pensiero si traduce in vari modi nella vita pratica della rivista: essa vuole raccogliere contributi di taglio interdisciplinare e multidisciplinare, abbattendo le barriere che tradizionalmente dividono i saperi; essa vuole essere un punto di incontro e di discussione per studiosi di formazione quanto mai eterogenea, provenienti da centri di studio sparsi in tutti i continenti; essa vuole essere dunque un vero ponte tra culture diverse, tra religioni diverse, tra mondi diversi.

Questa rivista, inoltre, essendo nata a cavallo del secondo e del terzo millennio, trancia, di riflesso, anche le barriere temporali oltre che quelle spaziali. Da una parte penetra il passato con il suo sguardo e, dall’altra, proietta la sua mente verso il futuro, nella ferrea convinzione che i fatti del presente debbano trovare la loro radice nella realtà storica e che le loro conseguenze non possano non protrarsi a lungo nel nostro futuro. Chiara è dunque l’opposizione all’attuale tentativo di ridurre la Storia, con la “S” maiuscola, a mera cronaca, a superficiale racconto di eventi che si susseguono a ritmo incalzante impedendo qualsiasi analisi scientificamente valida. Questa rivista rivendica quindi il proprio tempo, anzi i propri tempi di analisi, la propria libertà di pensiero di fronte alle idee dominanti e alle mode fugaci, con la consapevolezza del fatto che una conoscenza approfondita del passato costituisca un fattore imprescindibile per costruire un futuro migliore. Un futuro di rispetto, di diversità, di pace.

Salvatore Speziale

[1] N.d.C. Nella prima edizione il verbo “essere” era al tempo presente. L’insegnamento è stato abolito nell’A.A. 2007-2008 a favore di insegnamenti ritenuti dall’Università più utili alla formazione di futuri mediatori e docenti.

[2] N.d.C. Adesso 35 anni fa.

Da nord a sud e da sud a nord: un Mediterraneo della circolarità migratoria

Paesi remoti, nomi esotici, fisionomie diverse, ragioni dolorose, tragedie devastanti si presentano ai nostri occhi e alle nostre orecchie nel turbinio quotidiano delle notizie quasi sempre nefaste di naufragi o di violenze, suscitando sorpresa, commiserazione e partecipazione, ma spesso rifiuto, timore e sconcerto. Miserie materiali e morali purtroppo si confondono spesso e pericolosamente sotto una luce mediatica volta a produrre sensazioni e non riflessioni, semplificazioni e non articolazioni. Tunisini, marocchini, albanesi, curdi, palestinesi, cingalesi, nigeriani e rumeni: sembra troppo difficile distinguerli, ascoltarli e capirli mentre è molto più facile “com–prenderli” sotto l’etichetta “extra–comunitari”, anche se molti di essi non lo sono più.

Il fenomeno migratorio è presentato prettamente come frutto del mondo d’oggi, di un mondo spaccato in due dalla linea della ricchezza e della povertà, del benessere e del malessere, della democrazia e della tirannia, e viene generalmente recepito come tale. Ciò spinge solo pochi a dubitare se la nostra memoria storica sia naturalmente corta, o volutamente selettiva dato che rivisita in modo spesso mitizzato, edulcorato e parziale solo le immagini, gli stereotipi e i topoi delle grandi migrazioni transoceaniche, o rivede con autocommiserazione le migrazioni verso il mitico “nord”, e, infine, ricorda solo l’Italia povera e onesta, afflitta da mille miserie e mille sfortune, in cerca di lavoro duro ma ben fatto.

Innumerevoli cose sembrano volutamente cadute nell’oblio: ad esempio, il fatto che nel corso dei secoli l’Italia ha sempre costituito una meta da raggiungere per migliaia di profughi politici e di semplici coloni. Basta ricordare l’antica presenza greco–bizantina, che mantiene ancora vive le sue ricche tradizioni e la sua lingua in vari centri della Calabria, o la plurisecolare presenza albanese, che si perpetua nelle comunità arbreshe, in Calabria e in Sicilia, per non parlare dei catalani di Alghero o dei liguri nell’isola di San Pietro e nella penisola di Sant’Antioco in Sardegna.

E’ una memoria, la nostra, che non conserva il ricordo della duratura presenza italiana, forzata e volontaria, in Africa, lasciando soltanto qualche traccia nostalgica ed edulcorata della vicenda coloniale in Libia e nel Corno d’Africa. Eppure, al di là del recente colonialismo, e al di là delle colonie stesse, la presenza italiana in quelle terre è cospicua, duratura e fruttuosa. Vale la pena rammentare gli empori che veneziani, genovesi, amalfitani e pisani creano in vari punti del Mediterraneo: la Tabarca dei Lomellini di Genova e il fondaco dei veneziani a Costantinopoli ne sono validi esempi. Così come bisogna ricordare il numero sempre crescente di diplomatici, commercianti, viaggiatori, medici e sacerdoti che trascorrono buona parte della propria vita sull’altra sponda. Infine, non si devono dimenticare coloro che per motivi politici, giudiziari ed economici chiedono asilo in terra d’islam e l’ottengono in base al principio della protezione dei credenti nel Dio unico (dhimma). Alcuni di essi, bistrattati in patria, fuggiti in “terra di Barbaria”, si convertono, intraprendono la guerra di corsa, diventano comandanti di flotte, bey e pascià.

Ciò che, però, va ancor più evidenziato, è lo straordinario flusso migratorio di persone comuni che trovano vantaggioso migrare stagionalmente o stabilmente in terra musulmana, soprattutto dopo il trattato di Aix–la–Chapelle del 1818 che sancisce la fine della schiavitù dei bianchi in gran parte dell’Africa mediterranea. Migliaia di siciliani, calabresi, sardi, veneti…, i più poveri tra i poveri, cercano il loro paradiso o la loro via di fuga a sud: pochi nel regno del Marocco, tanti nell’Algeria francese, tantissimi nel protettorato tunisino, alcuni nella reggenza di Tripoli (saranno numerosi nella successiva Libia), moltissimi in Egitto, diversi nel crescente fertile e parecchi nella regione di Istanbul. Altri scendono più a sud e cercano fortuna lungo le coste dell’Africa nera fino a raggiungere il Capo di Buona Speranza.

Nel corso di 150 anni, migliaia di italiani, viaggiando sulle navi della compagnia Rubattino, la stessa della spedizione dei Mille, trovano un modo più o meno dignitoso di vivere in Africa: agricoltori, pescatori, minatori, muratori, commercianti, avvocati, medici, infermieri… Contemporaneamente, le barche dei pescatori del trapanese, che recentemente hanno favorito il flusso dei disperati verso nord, trasportano poveri sventurati e profughi politici, fianco a fianco di renitenti alla leva, evasi, fuggiaschi, ladri e assassini italiani verso sud: il caso della Banda Giuliano è uno dei più interessanti da attenzionare[1]. La storia si ripete, solo che cambia più volte direzione e, gli interventi raccolti in questa parte del libro devono farci ricordare, capire e riflettere su tutto questo: la longue durée serve anche a questo.

Questa sesta ed ultima sezione, come il titolo ampiamente illustra, Lo specchio della storia: migrazioni del passato e migrazioni del presente, mira a porre in risalto la circolarità del fenomeno migratorio in un mirror game tra le due sponde del Mediterraneo, tra le due dimensioni del passato e presente. Ben 17 contributi sono stati raccolti in due annate consecutive e assolutamente speculari: i sette contributi del 2008, sotto il titolo Specchio della storia: le migrazioni mediterranee da nord a sud, pongono al centro dell’attenzione i viaggi della speranza, quasi del tutto cancellati dalla memoria collettiva italiana, degli emigrati verso l’Africa mediterranea dal XVIII secolo in poi. I dieci contributi del 2009, invece, sotto il titolo Specchio della storia: le migrazioni mediterranee da sud a nord, si concentrano sui percorsi certamente più noti delle migrazioni recenti verso l’Europa e l’Italia in particolare, mettendo in luce tutte le dinamiche e le problematiche drammaticamente ad esse correlate.

Lo stesso gioco di specchi tra il passato e il presente migratorio mediterraneo è stato volutamente al centro di un ciclo di dieci incontri con illustri docenti italiani e stranieri, realizzati dalla Prof.ssa Laura Faranda presso l’Università La Sapienza, tra aprile e maggio 2012, dal titolo Transiti, memorie, sguardi sull’Africa mediterranea, che ha visto la collaborazione del sottoscritto. Un interessante effetto di ribaltamento delle prospettive, di sorpresa e di interesse, è stato osservato negli occhi degli studenti del Master in Religioni e Mediazione culturale e i Dottorandi in Storia, Religione e Antropologia della Facoltà di Scienze umanistiche, Lettere e Filosofia, Lingue e Patrimonio de La Sapienza ai quali gli incontri erano rivolti[2].

La doppia, anzi tripla conferma, della nevralgicità di questo gioco di specchi spazio-temporale, attraverso le due annate e il ciclo di incontri, non fa che rendere inequivocabilmente chiaro come i fenomeni migratori del Mediterraneo abbiano sempre avuto un carattere ciclico legato alle congiunture economiche, commerciali, politiche e religiose. Così come rende chiaro il fenomeno di assoluta fuga dal passato e di sorda chiusura nel presente che contraddistingue gran parte della società italiana e, gran parte della sua classe politica. L’assenza di una cultura e di una memoria delle migrazioni porta ad una politica migratoria legata al contingente, stretta dagli interessi di parte, frustrata dalle rivendicazioni dei poveri italiani, bloccata dalle paure della diversità, minata dai tentennamenti identitari: una politica dell’emergenza di cui fanno le spese maggiori le aree cerniera del Mediterraneo, Sicilia e Calabria prima di tutte.

Salvatore Speziale

[1] I documenti storici e le testimonianze orali raccolte in questi anni in Italia, in Francia e in Tunisia, che confluiranno in un lavoro sull’emigrazione italiana in Africa, rivelano fatti, relazioni e connivenze sorprendenti tra la Sicilia e la Tunisia a livello di coperture date ad elementi mafiosi o banditi. Un caso eclatante è dato, appunto, da appartenenti alla Banda Giuliano che fuggono in Tunisia dopo i fatti di Portella della Ginestra grazie alla complicità di pescatori del trapanese e si distribuiscono nelle campagne tunisine grazie all’appoggio di familiari e amici (fonti dell’Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri Italiano, degli Archives Nationales de Tunis, del Ministère des Affaires Etrangères de Paris).

[2] Incontri: S. Fedele (Univ. Messina), Rifugiati italiani in Africa tra ‘800 e ‘900 (17 marzo); G. Calchi Novati (Univ. Pavia), Le frontiere del colonialismo (30 marzo); M. Petricioli (Univ. Firenze), Oltre il mito, l’Egitto degli Italiani (1917-1947), J.J. Viscomi (Univ. Michigan), Gli italiani in Egitto nel II dopoguerra (13 aprile); F. Cresti (Univ. Catania), Gli italiani nella Libia coloniale (1911-1943)(23 aprile); A. Hénia (Univ. Tunisi), Sociétés citadines en Tunisie à l’époque moderne, comme “sociétés d’appel” (27 aprile); R.Y. Catalano (ambasciata Marocco), Vite allo specchio. Un secolo di donne e uomini italiani in Marocco (28 aprile); B. Scarcia Amoretti (La Sapienza), Gli altri ci guardano: la percezione dell’Occidente nel mondo musulmano (4 maggio); S. Finzi (Univ. Tunisi), La comunità italiana e il processo di democratizzazione in Tunisia (11 maggio); S. Speziale (Univ. La Sapienza), Benvenuti al sud? Lavoratori, rinnegati, esuli politici e clandestini verso l’Africa Mediterranea (XVII-XX secolo) (18 maggio); L. Faranda (Univ. La Sapienza), Susanne Taïeb e il presagio dell’etnopsichiatria: un’ebrea tunisina alla scuola di Antoine Porot (21 maggio).

premio 2004

 

9

Anno 2005

La guerra civile calabrese: dalla battaglia di Maida alla fucilazione di Murat (1806–2006)[1]

[1] La brochure di quest’anno si apriva con un intervento del presidente dell’associazione, Stefania Vasta Iuffrida, di cui si riportano i tratti più salienti: «Quest’anno, essendo ormai prossima la ricorrenza del bicentenario della Battaglia di Maida, l’associazione ha scelto come tema La guerra civile calabrese: dalla battaglia di Maida alla fucilazione di Murat. La battaglia di Maida (4 luglio 1806). Se pure senza grandi conseguenze strategiche, essa contribuì ad intaccare l’idea dell’invincibilità terrestre di Napoleone, ad animare i calabresi nell’insurrezione, a costringere i francesi ad un lungo e dispendioso impiego di uomini e mezzi in uno scacchiere del tutto secondario del Mediterraneo. Il periodo e i fatti intercorsi da quella data alla fucilazione di Murat nel 1815 e alla completa restaurazione borbonica è sembrato un ottimo terreno di speculazione interdisciplinare non solo per gli storici di mestiere. Abbiamo chiesto contributi che illustrassero le posizioni attuali della storiografia, che vedessero la complessità dello spaccato storico nel suo insieme e che gettassero nuova luce su fatti e questioni più specifiche. L’idea di riaprire questo capitolo di storia non è scaturita solo da un desiderio di ricordare un fatto bellico in sé e per sé o di presentare una rassegna dei vari punti di vista della storiografia, ma anche perché dalle ceneri della battaglia tra gli eserciti regolari inglesi e francesi che vide testimoni–attori anche tanti calabresi possa nascere un’occasione di incontro culturale fra tre popoli diversi dell’Europa e del Mediterraneo. Se si vuole parlare di pace ogni occasione è buona».

La battaglia di Maida (1806): prospettive diverse per una nuova lezione di storia

Un titolo forte e provocatorio nei confronti della storiografia sedimentata, La guerra civile calabrese, stimola percorsi di ricerca tradizionali e innovativi, che ruotano intorno ad un evento, la battaglia di Maida del 1806, aprendosi a scenari mediterranei, chiudendosi a spaccati locali. Sedici studi, tredici dei quali componevano la brochure del 2005, più altri tre inediti giunti successivamente, sono qui brevemente introdotti e rappresentano altrettanti validi punti di vista su un periodo storico di eccezionale rilievo per la storia del Mediterraneo, di questa regione e di questo tratto di terra legato al nome di Maida. Sedici brevi lezioni per una storia che offre spunti vitali e per una ricerca che mostra sempre nuovi percorsi.

Apre la brochure del 2005 il contributo dello storico Vincenzo Villella che mette in rapporto la visione locale della Battaglia di Maida con la visione internazionale. In questo modo trovano giustificazione logica le strategie contrapposte degli inglesi e dei francesi nel Mediterraneo e si comprende quanto delicato fosse il passaggio di Maida da una parte all’altra dei contendenti e quanto giustificata fosse la mossa di Napoleone di riappropriarsi del territorio.

Il contributo di Ulderico Nisticò è attraversato dalla sentita necessità di rivalutare il peso che la storia calabrese del periodo rivoluzionario ha sul presente. Richiamando alla memoria la profonda spaccatura ideologica che trasversalmente taglia in due la società calabrese del tempo senza distinzione di classe e di ricchezza ma sulla base di idee, l’autore fa presente quanto tale spaccatura continui a perdurare nella società di oggi.

Il contributo di Salvatore Speziale passa attraverso tre livelli di memoria–conoscenza. Scaturisce da un ricordo personale legato ai suoi soggiorni di studio nel Regno Unito e al suo passato in Calabria, transita attraverso una “smemorata” memoria collettiva per giungere infine alla ricostruzione storica dei fatti di Maida, alla ricerca di sempre nuovi sentieri tematici e metodologici da percorrere.

Luigi Fusto traccia un quadro sintetico ma ben caratterizzante della carriera di Jean–Baptiste Franceschi Delonne (1767–1810), il generale francese che ebbe l’incarico di rioccupare Maida dopo l’insurrezione antifrancese. Il Fusto lo segue dagli esordi parigini alla campagna d’Italia e alla sua triste fine in Spagna alla giovane età di 43 anni.

Il lavoro di Rosina Giovanna Maione dimostra come attraverso fonti locali, spesso trascurate dagli storici, come i “Conti dell’Intendenza” del comune di Maida, o i racconti di testimoni locali, la storia ufficiale, la storia politico–diplomatica per intenderci, perda i suoi contorni netti e precisi per diventare più varia, più ricca di prospettive, in definitiva, più umana.

Originale anche il lavoro di Mirella Galletti, studiosa di ben altra area del mondo, che presenta una rassegna degli echi dei fatti di Maida attraverso la stampa della sua città: Bologna. Città che a quel tempo dobbiamo immaginare ben più lontana di oggi dalla Calabria: città appartenuta al pontefice e non ai borboni, integrata in un’altra realtà napoleonica, ma comunque attenta a quanto accade nella distante punta dello stivale.

Il breve contributo di Mario Gallo è basato anch’esso sull’uso di preziose fonti documentarie dalle quali l’autore fa scaturire una posizione di ricerca che lega fortemente la battaglia di Maida ai Vespri calabresi che scoppiano a Soveria Mannelli nella primavera del 1806 e si diffondono prontamente nell’hinterland.

L’intervento ad opera di Roberto Avati si basa sulla attenta disamina degli armamenti in dotazione presso i due eserciti che partecipano alla battaglia. Dal suo punto di vista la superiorità tecnologica rappresentata dal “Brown Bess”, il soprannome dato al fucile messo a disposizione dei soldati inglesi, sembra aver avuto la parte del leone durante la battaglia di Maida.

Il contributo a cura di Magali Lucchini, riferisce il modo in cui un testo francese d’inizi Novecento di Jacques Rambaud riporta l’eco, certamente sovradimensionato, della battaglia di Maida nel Regno Unito e il modo in cui gli uomini di Reynier, disorganizzati, impreparati e male posizionati, reagirono all’attacco. Grande vittoria o facile sconfitta?

Sulle ragioni dell’interruzione al sostegno del brigantaggio antifrancese e sulle cause della mancata continuazione della campagna inglese in Calabria si sofferma il contributo di Giovanni Iuffrida. Uno studio mirato che rivela come le strategie belliche e diplomatiche della Gran Bretagna mettono fuori gioco le iniziative locali.

L’intervento, di Lucio Leone, tratta la battaglia di Maida attraverso gli occhi della popolazione di Nicastro, antiborbonica e antifrancese, che era insorta in seguito al proclama del generale Stuart. L’autore indica inoltre alcune delle fonti utilizzabili per l’individuazione del sito della battaglia stessa.

Il breve intervento di Giuseppe Restifo cerca di inserire gli eventi bellici all’interno del contesto insurrezionale calabrese. Prova a leggere negli sguardi degli insorti una sorta di rifiuto della modernizzazione imposta dall’alto con la forza delle armi, rapportandolo all’attuale “esportazione della democrazia”.

Segue il contributo di Carmelina Gugliuzzo che propone di rileggere la storia di quel periodo partendo “dal basso”, evitando di ripercorrere le solite tappe e i soliti cliché dell’histoire–bataille per osservare più direttamente i calabresi, le loro dinamiche interne, le loro motivazioni, le loro forme organizzative, la loro sociabilità.

Il secondo intervento di Roberto Avati parte da uno spunto autobiografico per rivendicare il ruolo che svolsero con onore e con gravi perdite in seno all’esercito napoleonico gli arruolati calabresi, in campagne svoltesi in terre lontane come la Russia e la Germania e a dispetto della fama non certo lusinghiera di cui godevano le truppe della nostra penisola.

L’intervento di Salvatore Moschella, si basa su un’attenta disamina delle strategie di guerra impiegate dai due eserciti che si affrontarono a Maida e, in particolare, gli errori tattici del generale Reynier che consentirono agli inglesi di avere il sopravvento in pochi minuti del nemico, errori che, a detta di Napoleone stesso, vennero ripetuti dal proprio generale da lì a qualche anno.

Il contributo di Leopardi Greto Ciriaco chiude questa prima rassegna di studi dedicati alla Battaglia di Maida, sottolineando con chiarezza pari a concisione gli aspetti salienti di questa battaglia: lo schieramento in linea inglese a fronte del dispiegamento a colonna francese che determina sia l’estrema brevità dello scontro che la netta disparità delle perdite. Una nuova tattica di guerra viene impiegata nella piccola battaglia di Maida per essere reimpiegata in future battaglie.

Salvatore Speziale

La battaglia di Maida 

La battaglia di Maida del 4 luglio 1806 non fu un grande evento bellico paragonabile a quelli contemporanei del periodo napoleonico come Marengo (14 giugno 1800), Ulm (20 ottobre 1805) e Austerlitz (2 dicembre 1805). Però non può essere neppure considerato un avvenimento militare casuale e sporadico, di pertinenza esclusivamente locale. Al contrario, va inserita a pieno titolo nelle strategie politico–militari europee del periodo napoleonico e, in modo particolare, dello scontro franco–britannico nell’area del Mediterraneo. L’Inghilterra con la sua marina controllava la Sicilia e la Sardegna. Nel 1800, con la conquista di Malta, si completò il suo sistema difensivo nel Mediterraneo. Anche per la Francia di Napoleone era importante l’area dell’Italia meridionale e della Sicilia: serviva come ponte per la progettata penetrazione nei Balcani e nell’Egeo.

La battaglia di Maida è stata chiamata con questo nome dagli inglesi, mentre i francesi parlano di battaglia di S. Eufemia, in quanto lo scontro fra i due eserciti avvenne nella parte orientale della piana.

Maida sfatò il mito dell’invincibilità dell’esercito napoleonico sulla terraferma ma la conseguenza immediata più importante della vittoria inglese fu che essa rappresentò il segnale della generale rivolta antifrancese. Infatti, subito dopo la battaglia, le campane di tutte le chiese suonarono a lungo e i falò fiammeggiarono sulle colline, diffondendo la notizia da un villaggio all’altro.

Si scatenava la caccia ai francesi e ai loro sostenitori nonostante l’invito a trattare bene i prigionieri e la promessa di ricompensa contenuti nel bando di Stuart. A Nicastro la locale guarnigione francese fu costretta ad abbandonare precipitosamente la città in rivolta, mentre si innalzavano le bandiere e i vessilli borbonici e la gente, sospinta da un’orda di criminali, correva all’ospedale massacrando tutti i soldati francesi che vi erano ricoverati. Dappertutto imperversava l’anarchia.

Per i superstiti dello sconfitto generale francese Reynier i giorni successivi furono un vero e proprio calvario. Si ritiravano verso nord, pensando che gli inglesi li inseguissero. Invece i britannici si diressero verso sud. Ma contro di loro si scatenò la rivolta dei calabresi che presto divenne generalizzata in ogni angolo della regione. Era la stessa corte borbonica che da Palermo fomentava e sosteneva finanziariamente l’insurrezione.

Però Napoleone non tollerò la disfatta di Maida e diede ordine al fratello Giuseppe Bonaparte di riscattare subito quella sconfitta bruciante e di vendicare quella vergogna. Fu dato incarico al generale Massena di recuperare immediatamente le Calabrie senza badare ai mezzi e ai costi. La regione fu posta in stato di guerra e ben 14 mila uomini furono subito mobilitati dal Massena che partì da Napoli. Seguirono i drammatici anni del cosiddetto decennio francese fino alla fucilazione di Gioacchino Murat (13 ottobre 1815) e poi gli anni ancora più bui della restaurazione.

La notizia della vittoria di Maida fu accolta in Inghilterra con grande soddisfazione e sui vincitori piovvero medaglie e riconoscimenti. Le due Camere votarono ordini del giorno di compiacimento e di elogio. Nei discorsi di ministri e deputati il nome di Maida fu associato a quello delle più famose battaglie della storia nazionale inglese. Giorgio III conferì a Stuart il titolo di duca di Maida ed ai principali comandanti furono concesse speciali decorazioni. Fu anche coniata una medaglia commemorativa.

A conferma del grande entusiasmo per la vittoria e dell’importanza assegnatale dalla storiografia inglese, il nome di Maida fu dato a due strade di Londra: una la Maida Vale (tra Kilburn High Road e Edgware Road), l’altra la Maida Avenue.

Vincenzo Villella

Insurrezione come guerra civile

 La Calabria ha molto da guadagnare in consapevolezza di se stessa e in immagine di fronte agli altri se, ricorrendo il secondo centenario della grande insurrezione contro Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, saprà riconoscere a quegli eventi lontani ma non finiti la fosca dignità di guerra civile.

Tra il 1806 e il 1815 si scontrarono in Calabria due visioni della vita e del mondo, e anche due partiti interpreti di interessi diversi e contrastanti. Dalla parte borbonica, si collocò il mondo antico, la comunità fatta di religione, tradizione, identità particolari di ceti e persone, economia di sussistenza, disordine e consuetudine; dall’altra, una cultura sostanzialmente materialista o spiritualista, il bisogno di innovazione, la tendenza all’uniformità, l’economia di produzione e mercato e la proprietà privata, l’ordine centralistico fondato su norme scritte e l’interesse concreto di mettere le mani sulle terre ecclesiastiche e demaniali. Sono i «due secoli l’un contro l’altro armato» che si affrontarono in tutta Europa, dovunque giunsero le armate napoleoniche, e dovunque i popoli, o parti di essi, si opposero in nome dell’indipendenza e della conservazione.

Pertanto non si può applicare all’evento calabrese alcuna aprioristica analisi sociologica: non si collocarono dall’una o dall’altra parte due “classi”, ma si compì da ciascuno una scelta secondo o le circostanze, o il singolo modo di vedere la vita e le cose. Gli eredi dei combattenti dei due fronti continuarono e continuano in qualche modo a manifestarsi a vicenda avversione, timore, disprezzo. La Calabria degli ultimi due secoli è dunque figlia di quegli anni, e capire cosa accadde allora è la chiave per comprendere il nostro presente e prevedere l’avvenire. Anche i contemporanei, se vogliono, possono dividersi per inclinazioni e passioni: ma, dopo duecento anni, farebbero meglio a studiare la storia piuttosto che esaltarla o condannarla acriticamente.

Quei lontani fatti meritano di essere raccontati pure per il loro valore, e divenire oggetto di letteratura, teatro, cinema. Altrove canterebbero poemi e girerebbero film a decine su episodi come la battaglia di Maida, i Vespri di Soveria, l’assalto di Genialitz a Cosenza, l’assedio di Amantea (e padre Michele Ala, cappuccino e capobanda, a dir la Messa sulle mura in faccia ai Francesi), la difesa di Crotone, il rogo dei libri per mano di Santoro Re Coremme, la strage di Parenti, l’inganno del destino che portò Murat a morire in Calabria.

E meritano memoria anche quei calabresi che, portatori di idee e interessi diversi, scelsero di schierarsi con la rivoluzione: gli Ambrosio, gli Amato, gli Arcovito, i fratelli Pepe, e quanti impararono alla dura scuola degli uomini di Napoleone il mestiere delle armi, da molto tempo dimenticato in Italia, e lo insegnarono alle generazioni venture.

La cultura calabrese deve affrontare questo tema, riscoprendo fatti scordati, cercando documenti inediti, ripubblicando vecchi testi, traducendo quelli stranieri, e soprattutto accettando il dialogo e non rifiutando tesi e interpretazioni, quand’anche nuove e provocatorie. Le pubbliche autorità devono cogliere questa occasione, favorendo ogni intelligente manifestazione di rievocazione e studio.

Ulderico Nisticò

Ricordi londinesi, memoria collettiva e memoria storica 

«Maida Vale. Mind the step! Mind the door!».

Quante volte, da studente e da studioso, viaggiando sulla “Bakerloo line” della metropolitana londinese passavo dalla stazione di Maida Vale e sentivo la voce che annunciava la fermata e invitava i passeggeri ad osservare le basilari norme di prudenza: «Stazione della Valle di Maida. Attenti al gradino! Attenti alla porta!». La mia mente correva immediatamente a Maida, agli amici più cari, agli ulivi centenari, testimoni silenziosi, al suo presente e al suo passato.

Quante volte, senza sapere il perché di quel nome, studenti, turisti e lavoratori immigrati calabresi saranno passati da quella fermata, forse per andare alla stazione più rinomata di Wembley, sede del famoso stadio londinese, e non, mi auguro, per andare al Maida Vale Hospital for Nervous Diseases. Quante volte invece avranno letto quel toponimo scorrendo la “London underground pocket map”, alla ricerca di un percorso più agevole per raggiungere Edgware Road, Regent’s park, Oxford Circus, Piccadilly Circus o infine, Waterloo Station, quasi al termine di questa stessa linea sotterranea.

Proprio una linea sotterranea collega Maida e Waterloo: tutte e due sono stazioni metropolitane londinesi, tutte e due sulla “Bakerloo line”, tutte e due luoghi di battaglie peraltro legate al periodo napoleonico, tutte e due gloriosi ricordi dell’esercito del Regno Unito e triste memento delle disfatte dell’esercito francese. Ma l’una, Maida Vale, si trova in direzione del capolinea di nordovest, l’altra, Waterloo, è quasi al capolinea di sudest. Non importa qui tanto il fatto che le due stazioni risultano invertite di posizione rispetto alla geografia del continente. Interessa invece che l’opposta posizione lungo il tragitto metropolitano sembra riflettere l’opposta presenza nel ricordo dei più. Una è famosissima, l’altra è dimenticata. La memoria collettiva gioca brutti scherzi.

La memoria storica, creata, arricchita, rivissuta sia da storici locali che da storici del Mezzogiorno e del Mediterraneo, può ovviare a questo inconveniente. Non si vuole però invitare gli storici solo a ricordare ai più un evento bellico del passato calabrese che ha coinvolto due delle maggiori potenze dell’Ottocento, a ripercorrere le tappe della battaglia, a capire le ragioni e le conseguenze per il mezzogiorno e per gli equilibri euromediterranei. Sarebbe opera sicuramente utile ma per molti versi adempiuta. Non si intende quindi spingere gli studiosi soltanto ad approfondire e diffondere aspetti politico–militari legati a quel tragico 4 luglio del 1806, la storia dei tanti Stuart e dei tanti Reynier. Si desidera altresì stimolare l’esplorazione di sentieri finora poco battuti. Sentieri lungo i quali troviamo non solo francesi e inglesi che si studiano, si temono e si scontrano, ma anche e soprattutto i calabresi stessi, con le loro aspirazioni, con le loro delusioni, con il loro tentativo di inserirsi in un gioco più grande di loro, con i loro poveri mezzi, con le loro sofferenze. Con il disprezzo addosso da ambo le parti.

In questo modo, la storia di quel tempo può sembrare ancora viva, portatrice di ancora nuove conoscenze o di vecchi scenari che si ripetono, dove c’è da egemonizzare, dove c’è da resistere.

Salvatore Speziale

Franceschi Delonne: il generale che rioccupò Maida dopo l’insurrezione del 1806

Generale di cavalleria, piccolo e sbilenco, intrepido e pieno di fuoco, Jean–Baptiste Franceschi Delonne nacque a Lione il 4 settembre 1767 e quando scoppiò la rivoluzione francese faceva lo scultore. Il 6 settembre 1792 venne eletto a Parigi Sotto–luogotenente della Compagnia delle Arti. Dal 1792 al 1799 servì nell’Armata della Mosella, in quella della Sambre e Meuse, in quella del Reno e del Danubio. Fece la Campagna d’Italia (1800). Nominato colonnello nel 1803, partecipò con la Grande Armata alla battaglia di Austerlitz, venendo promosso subito dopo generale di Brigata.

Nel 1806 partecipò alla conquista del Regno di Napoli; durante la battaglia di Maida comandava i “Cacciatori” al centro dello schieramento, a fianco del comandante in capo Reynier. Nel corso della spedizione per la riconquista delle Calabrie (dopo la sconfitta di Maida ed il ritiro a Cassano), fu Comandante della Cavalleria.

Gli inglesi – vincitori – partiti da Maida il 16 luglio, lasciarono la città praticamente senza governo. Per la sua posizione strategica, Maida divenne obiettivo degli insorti calabresi della zona, comandati dal sacerdote Giuseppe Papasodero di Centrache. Il Papasodero, coadiuvato da una massa indisciplinatissima, organizzata (si fa per dire) dal Brigadiere borbonico Cancellieri, si propose di occupare Maida, di noti sentimenti filofrancesi. Durante la prima occupazione, avvenuta il 15 marzo, infatti, i francesi erano stati oggetto di palese simpatia; i loro feriti del 4 luglio erano stati assistiti e curati, ed il 5 settembre erano stati ricevuti «in modo da non potersene meglio» (Epistolario Costanzo del 9 settembre 1806).

Il Papasodero venne sconfitto una prima volta il 6 settembre da Reynier che passava da Maida per raggiungere Massena. Partito Reynier, la situazione si ripresentò tal quale. Gli insorti calabresi, attestati a San Pietro, il 15 successivo si apprestavano ad attaccare nuovamente Maida. Ma qui si trovava la colonna di Franceschi Delonne, in procinto di raggiungere Catanzaro, nella prospettiva di essere rimpiazzata da 400 uomini provenienti da Pizzo e da Nicastro. Franceschi fa finta di uscire da Maida; Papasodero vi entra. Franceschi torna sui suoi passi coadiuvato dalle sopraggiunte colonne di Pizzo e Nicastro e rioccupa una volta per tutte la città, dopo circa due mesi di interregno.

Il 23 settembre parte da Nicastro e sulle alture di Soveria mette in fuga un gruppo di briganti; pernotta a Scigliano ed il 24 è a Cosenza. Il 4 ottobre assale Gasperina, dove riceve una delegazione di Petrizzi che promette fedeltà. Raggiunge quindi Taverna e fa bruciare Cicala che lo aveva accolto a fucilate. Il 6 è di nuovo a Maida, dove evidentemente si sente al sicuro, per far riposare le truppe; ma un ordine di Massena lo spedisce d’urgenza a Catanzaro che deve essere liberata dall’assedio di 500 uomini della massa di Leonetti. E’ ancora a Maida, intorno al 9 novembre, da dove ordina al Comandante della Piazza, don Giuseppe Farao, di scarcerare l’arciprete di Girifalco. Nella primavera del 1807 è a Napoli, aiutante di campo di re Giuseppe. Sposa la figlia del Ministro della Guerra generale Mathieu Dumas, che nelle sue memorie lo ricorderà come «uno dei più distinti (generali) per il suo valore ed i suoi talenti». Nell’anno successivo segue Re Giuseppe in Spagna.

A fine giugno del 1809 il maresciallo Soult inviò Franceschi a Madrid per informare il Re delle gravi difficoltà dell’armata. Ma appena iniziato il viaggio, Franceschi venne fatto prigioniero dalla banda di “El Capuchino”, così detta perché comandata dal cappuccino Padre Giuliano di Delica. Per Franceschi ebbe inizio una via crucis interminabile, che si concluse a Cartagena (Murcia), nelle cui carceri morì di febbre gialla il 23 ottobre 1810: aveva 43 anni.

Luigi Fusto

Le pagine nascoste

Testi e faldoni addormentati tra gli scaffali polverosi di una biblioteca o un archivio, se sapientemente risvegliati sono capaci di raccontare storie di un passato lontano, che sorprendentemente affascina e stupisce. E’ l’altra faccia della medaglia, l’altra parte della Storia che si affianca a quella “canonicamente” conosciuta. Quella Storia, cioè, tratteggiata di scontri armati, dispute tra potenti, beghe politiche, che da sempre attraggono e rapiscono le menti. Nello specifico, della “nostra Storia”, di tutti gli antefatti che portarono alla “Battaglia di Maida”, del 4 luglio 1806. La caduta del Regno di Napoli, la fuga dei Sovrani a Palermo. L’invasione della Calabria da parte dell’esercito francese. Le cronache, che ripetono degli innumerevoli disagi causati alle popolazioni dai soldati, fino alla loro sollevazione. Il copioso spargimento di sangue, da ambo le parti. Insurrezioni, rivolte, esecuzioni sommarie, bande di briganti organizzate, per scacciare i francesi dalle proprie terre. Bandi e proclami distribuiti segretamente per aizzare e fomentare gli animi. Fino allo sbarco, nel Golfo di Sant’Eufemia, dell’esercito inglese, il 30 giugno e il successivo scontro in campo aperto, con la schiacciante vittoria dei Britannici – la prima sulla terraferma – contro un esercito francese incapace di fronteggiare il nemico.

Esiste cioè, una storia nascosta tra i ripiani polverosi che ci racconta di gente comune e di una classe politico–borghese accomodante, almeno in apparenza, che cerca di salvaguardare il proprio status, favorendo e aiutando il nemico–invasore e incoraggiando allo stesso tempo la liberazione da questi.

E’ quanto si legge, ad esempio, nei “Conti dell’Intendenza” del comune di Maida, in cui risulta venga fornito ogni sorta di conforto alle truppe francesi. Vi si trovano Atti concernenti vetture comunali messe a disposizione di ufficiali e messaggeri, rifornimenti di ogni tipo, vettovaglie, “oglio”, lenzuola e materassi, carta e inchiostro, nonché l’affitto di abitazioni per l’acquartieramento delle truppe.

Contemporaneamente, dai racconti di testimoni oculari (Fabiani e Majorana), si evince che è la popolazione stessa di Maida ad intervenire in primis nei momenti cruciali dello scontro. Partecipa al trasporto dell’artiglieria britannica prima, alla sepoltura dei morti, al soccorso e all’accoglienza dei feriti dopo, indistintamente dell’uno o dell’altro esercito. A Maida viene ospitato il Generale inglese Sir John Stuart e, in una lettera, un ufficiale svizzero ferito e prigioniero, dopo il suo trasferimento a Monteleone, ringrazia personalmente il medico che lo ha curato e la famiglia che lo ha accolto. E ancora molteplici potrebbero essere gli esempi.

Tutto ciò, però, non deve essere visto come sintomo di ipocrisia e doppiezza, potrebbe essere letto invece come un segno dei tempi, forse una salvaguardia della tranquillità, ma non è solo questo. Bisogna leggervi dentro un fervore di intenti, una dedizione naturale all’accoglienza, una grande passione che anche in seguito, come la storia ci racconta, caratterizzeranno la gente di Maida.

Rosina Giovanna Maione

La battaglia di Maida nella stampa bolognese

 La “Gazzetta di Bologna” era un bisettimanale che usciva dal 1805 con corrispondenze dalle varie città italiane, da alcune capitali europee e Costantinopoli. Bologna era stata occupata dalle truppe napoleoniche nel 1796 e ancora nel 1800. Nel giugno del 1805 Napoleone e Giuseppina, novelli sovrani del Regno d’Italia, ebbero una calorosa accoglienza nella città felsinea che plaudiva al rinnovato spirito. Il giornale non cita la battaglia di Maida, ma è interessante esplorare la risonanza degli eventi calabresi del 1806 a Bologna ed anche il linguaggio usato.

«NAPOLI 18. Luglio. Le notizie delle Calabrie portano, che parecchie popolazioni di quelle due Provincie si erano rivoltate, tratte a ciò dallo sbarco di poche Truppe Inglesi. I Briganti scorrevano in massa sotto il comando di la Marra, Pan di grano. I Generali Reynier, e Verdier, essendosi mossi con le loro Truppe, hanno disperso i briganti: tutti quelli, che sono stati presi con le armi alla mano, hanno subito la pena dovuta ai loro misfatti: que’ paesi, che hanno alzato lo stendardo della ribellione, sono stati messi a ferro, e a fuoco. Il Generale Reynier trovasi ora col suo Quartier generale a Catanzaro. L’altro Generale Verdier ha eseguite le stesse operazioni, ed è stato secondato vigorosamente da molti popoli, che hanno prese le armi per difendersi. Il Quartier generale di Verdier è a Cassano. Quanto agl’Inglesi, essi non si sono molto avanzati, anzi si tengono trincierati sul lido del mare» (n. 63, 8 agosto 1806, pp. 498–499).

«NAPOLI 25. Luglio. […] Oltre alle divisioni di Lecchi e Duhesme che sono rientrate nel Regno, è in marcia il Corpo del Generale Molitor, e il resto dell’Armata del Maresciallo Massena. Montano a circa 25. m. Uomini. […] La Divisione del General Reynier mantenendosi tuttora in Catanzaro e in Cotrone [antico nome di Crotone], ha disperse quelle masnade di assassini, e ha fatto dei movimenti attivi ed ingegnosi per piombare addosso agl’isolani. Ma questi, dopo aver secondo il solito acceso il fuoco nella Provincia, si sono imbarcati di nuovo».

«Altra di NAPOLI 27. Luglio. Nelle Calabrie sono seguiti orrori tali, che fanno fremere l’umanità e il pudore. Il povero Vescovo di Cosenza è stato crocifisso, e trafitto replicatamente con lance e spade finché spirasse l’anima. Il degno Prelato non aveva altro delitto che di essersi portato incontro a S.M. il Re Giuseppe quando passò per Cosenza nel suo giro per le Calabrie. […] Al primo romore eccitatosi nelle Calabrie i più ricchi possidenti di quella Provincia, i Principi, i Marchesi parte di moto lor proprio, parte invitati si sono portati alla testa de’ migliori e più affezionati Cittadini per sedare il tumulto, e sottomettere colla forza delle armi gl’insorgenti. Il General Verdier ha un Corpo di 10. m. Uomini d’Infanteria e 2. m. di Cavalleria. In breve tutto sarà portato al dovere, né basteranno gli Inglesi sbarcati in quelle parti a proteggere gli scellerati, dopo di averli sommossi colle loro Ghinèe, e animati colla loro presenza».

«Altra pure di NAPOLI 1. Agosto. […] Assicurasi che varie Deputazioni dei Paesi insorti siansi dirette qui per domandare perdono al Re essendo rientrati nell’ordine, che la Calabria citeriore siasi quietata, e che gli Inglesi trincierati in Amantea siano disposti a guadagnar il mare» (n. 65, 14 agosto 1806, pp. 513–515).

«Altra pure di NAPOLI 18. Agosto. Parlasi di una sanguinosa azione seguita nelle Calabrie. Secondo alcuni la battaglia debb’essersi data a Valle S. Marco, e secondo altri a Campodanese. Alcune migliaia di Briganti debbono avervi perduta la vita. Gl’Inglesi temendo l’avvicinamento delle nostre Truppe vannosi fortificando nella Calabria ultra» (n. 68, 26 agosto 1806, p. 547).

«Altra di NAPOLI 16. Agosto. Le notizie della Calabria portano, che tutto il Paese da Lauria fino a Cosenza è rientrato nell’ordine. […] Il General Reynier occupa tutto il Paese fino a Cotrone. Il Generale Verdier dev’essere a Cosenza, ove trovasi il Maresciallo Massena» (n. 70, 2 Settembre 1806, pp. 553–554).

«NAPOLI 22. Agosto. […] Jeri giunse il Corriere dalle Calabrie: le notizie recate di colà ci presentano da un lato gli orrori commessi dai nemici in que’ luoghi, dall’altro disinganno de’ Popoli, che sono stati trascinati ciecamente al precipizio. Si è saputo, che i capi della rivolta delle Calabrie, che avevano concertata col nemico della vicina isola la rovina della loro patria, sono i nominati: Gio. Marincola, Gio. Mirabelli di Nicola, Claudio di Luca, il medico Francesco Salvadore, Antonio Palmieri, un tale Antonio Ferrari, che si caratterizzava Marchese, ed il padre Ala. il detto Ferrari è al presente nelle forze: gli altri si sono salvati con la fuga» (n. 73, 12 Settembre 1806, pp. 578–579).

«COSENZA 10. Settembre. Gli ultimi sforzi degli Inglesi nelle Calabrie erano rivolti a sostenere un residuo di Truppe Napolitane e di ribelli. Il Gen. Reynier che si era inoltrato nel centro della ulteriore Calabria, ha incontrato un Corpo di 3.000. uomini fra Nicastro e Monteleone, e lo ha pienamente sconfitto. Il Gen. Verdier ha distratti quelli che si erano raccolti presso Amantea. Sonovi ancora delle piccole bande d’assassini e di sedotti, i quali con improvvise apparizioni travagliano un paese e si ritirano nelle montagne; ma le stesse loro scorrerie li distruggono poco a poco, e la stagione che si avanza rendendosi sempre più molesta agli abitatori dei monti accelera la loro distruzione» (n. 77, 26 Settembre 1806, p. 610).

 Mirella Galletti

Dai vespri calabresi della primavera del 1806 alla battaglia di Maida

Nella ricerca storica, la consultazione delle fonti bibliografiche è di fondamentale importanza in quanto indispensabile alla definizione del contesto di riferimento di ogni avvenimento. Quando però l’indagine affonda tra la documentazione d’archivio si scopre, talvolta, qualche testimonianza che consente un collegamento tra fatti non soltanto apparentemente lontani geograficamente ma anche indipendenti sotto ogni profilo.

La battaglia di Maida è notoriamente conosciuta come uno dei numerosi scontri avvenuti nel periodo napoleonico tra la flotta inglese e l’esercito francese; il suo esito positivo per i britannici, a futura memoria, ha impresso una marcata impronta nella toponomastica londinese.

L’esame di un rapporto redatto il 20 aprile 1806 a Messina sulla scorta delle notizie riferite da Rosario Nicastri, filoborbonico scappato dalla sua città di origine (Scigliano, in Provincia di Calabria Citra) e rifugiatosi in Sicilia, consente di mettere in relazione – quasi come causa ed effetto – la rivolta antifrancese che nella primavera del 1806 ha coinvolto le popolazioni del comprensorio del monte Reventino (posto nell’alto lametino e più precisamente a cavallo tra la Provincia di Calabria Citra e la Provincia di Calabria Ultra).

Riferisce, infatti, l’esule Rosario Nicastri a Cancellieri la forte opposizione che, preso l’avvio dall’episodio dei vespri scoppiato a Soveria Mannelli il 22 Marzo, ha rappresentato un serio ostacolo, forse l’unico, all’occupazione del Regno di Napoli da parte dell’esercito napoleonico.

Le perdite e le difficoltà dell’esercito di occupazione trovano ampio riscontro nei rapporti degli ufficiali francesi, custoditi negli Archivi di Parigi e resi consultabili in opere monografiche quali quelle autorevolissime del Rambaud e del Mozzillo.

Il rapporto di Cancellieri all’Ammiragliato inglese (custodito a Londra nell’Archivio dell’Ammiragliato) consente di ipotizzare quanto segue: il comando della flotta inglese – venuto a conoscenza delle difficoltà incontrate dai francesi nel territorio centrale della Calabria – decide lo sbarco nel golfo di Sant’Eufemia. La flotta inglese, d’altra parte, è nota per la sua agilità di movimento e per la capacità di mordere improvvisamente l’esercito francese sulla terra ferma e di ritirarsi rapidamente sul sicuro mare

La battaglia di Maida, quindi, è – secondo questa ipotesi di ricerca – la logica conseguenza dei vespri calabresi che, scoppiati a Soveria Mannelli, nella primavera del 1806 si sono diffusi prontamente nell’intero comprensorio montano del Reventino, da Platania a Serrastretta, da Decollatura a Motta Santa Lucia, da Conflenti a Martirano.

Il ritiro in mare delle forze inglesi vittoriose nella battaglia di Maida e la rinuncia all’inseguimento di un esercito francese battuto ed in precipitosa e disordinata fuga, rappresentano la conferma dell’intenzione di alimentare la rivolta popolare in un contesto sfavorevole e rischioso per le forze napoleoniche.

Mario Gallo

La strategia vincente

Secondo le versioni dei cronisti francesi la battaglia di Sant’Euphemie iniziò con i francesi che marciavano su due file verso il nemico e gli inglesi che, dopo i primi colpi, si ritirarono attirando i nemici in un punto dove sui lati nelle boscaglie erano nascosti cannoni e reparti di fucileria. Al fuoco di questi la prima linea degli attaccanti fu decimata: in 25 minuti i francesi ebbero 2.000 uomini fuori combattimento tra cui 46 ufficiali, ed a nulla valse l’impeto della cavalleria francese lanciata contro le batterie.

Furono dunque le scariche di fucileria che decisero la battaglia o meglio fu l’utilizzo strategico da parte degli inglesi di reparti di tiratori scelti, armati con i fucili migliori, addestrati a colpire soprattutto gli ufficiali.

Il fucile degli inglesi rappresentava l’evoluzione dei modelli a pietra che a partire dal 1730 avevano accompagnato le truppe di sua maestà in tutti i continenti, si trattava, infatti, del modello India Musket, ovvero di quel fucile costruito da fabbriche private per la compagnia delle Indie, la cui produzione venne requisita per sopperire al fabbisogno dell’esercito nazionale.

L’arma fu costruita in 3 milioni di esemplari ed era caratterizzata da una lunghezza totale di 139 cm, una canna liscia di 100 cm, un calibro di 19 mm, un peso di 4,34 Kg ed una baionetta triangolare di 45 cm di lunghezza che si innestava a calza sulla canna.

Il fucile si distingueva immediatamente dal rivale francese per lo scodellino dell’innesco in acciaio solidale alla piastra e dal cane, che nei modelli antiquati era a collo di cigno e che dal 1810 fu costruito a doppio collo. La potenza dei colpi era paragonabile a quella di un odierno calibro 44 Magnum.

Ma il nome che lo identificava più comunemente era quello di “Brown Bess” ovvero “Bess la bruna”, forse in ricordo di Elisabetta I. I grognards francesi chiamavano il proprio mousquet d’infanterie, “An IX” con il soprannome di clarinetto da cinque piedi.

La sigla dell’anno derivava dal fatto che nel 1801[1], il ventuno del mese piovoso, Napoleone Bonaparte aveva emanato il regolamento di produzione delle armi militari e quindi fissato le caratteristiche del fucile che venne prodotto fino al 1820, per totale di due milioni di esemplari, in diverse manifatture, compresa quella di Torino.

Il fucile era lungo complessivamente 151,5 cm, la canna era di 113,7 cm con un’anima liscia di 17 mm di diametro per un peso di 4,3 Kg; la calciatura era in noce ed il bacinetto dell’innesco in ottone. Le palle raggiungevano una distanza di 900 metri ma il tiro era efficace fino a 250 metri, la potenza della palla era comunque tale che a 157 metri attraversava un pannello di legno di pino spesso 26 mm. La baionetta di tipo triangolare era lunga 405 mm e si innestava sulla canna, con un attacco a calza e ghiera soprattutto per consentire la difesa durante le cariche della cavalleria.

Le migliori pietre focaie, infine, erano quelle “bionde” di produzione francese che, comunque, diventavano inservibili dopo circa 50 colpi.

In definitiva il clarinetto era tecnologicamente superiore alla “Brown Bess” ma, come anche Napoleone ebbe modo di ricordare, l’esito della battaglia dimostrò che era più importante l’addestramento all’uso dei fucili che la quantità e la qualità degli stessi.

 Roberto Avati

«Un débat devant le monde»

«L’Angleterre triompha de cette première victoire sur l’armée issue de la Révolution, avec d’autant plus de bruit qu’elle s’y attendait moins. Les deux Chambres votèrent des félicitations: aux Lords, Grenville déclara qu’il ne connaissait pas dans les annales de l’Angleterre de succès plus honorable, et, aux Communes, le ministre de la Guerre, Windham, rappela les noms de Crécy, de Poitiers, d’Azincourt. Des distinctions spéciales furent créées: sur les boutons d’uniformes, le nom de Maida; aux chefs, une médaille commémorative en or, la première qui ait été frappée pour une victoire continentale. Dans le pays, ce fut un enthousiasme “indescriptible”. L’orgueil national considéra par ce seul coup “la supériorité de courage et de discipline” des troupes anglaises comme définitivement établie, et il semblait que le destin eut choisi, pour l’éprouver, cet adversaire même qui l’avait publiquement dénigrée. Des publications parurent qui invitaient l’Angleterre à développer largement son armée de terre et à multiplier les expéditions continentales, pour ruiner l’ennemi sur son élément.

Cette bataille, secondaire par elle–même, eut donc un retentissement énorme, d’autant plus qu’il y avait accalmie en Europe: “Nulle part on ne se bat, les regards sont sur nous”. Les journaux étrangers la commentèrent vivement. La confiance qu’elle inspira aux troupes anglaises eut sa conséquence directe en Portugal et en Espagne. Leur tactique, si simple grâce à l’efficacité du tir et au sang–froid du soldat, a reçu là sa consécration et il n’y a pas si grande distance entre le futur comte de Maida, assistant au combat et spectateur intéressé et le “duc de fer” à Waterloo, se bornant à répéter que l’ordre était de tenir jusqu’au dernier homme.

Une défaite aussi complète, succédant à tant de confiance, jeta les troupes de Reynier dans un profond découragement. Le général désespérait de les retenir en cas de nouvelle attaque et les témoignages s’accordent à les montrer démoralisées à un degré surprenant chez des troupes aussi éprouvées. Un officier croit que l’on n’aurait pu les rallier s’ils n’avaient été arrêtés par l’apparition des paysans armés, qui avaient attendu sur les hauteurs l’issue du combat et descendirent alors “en poussant des cris effrayants”, pour piller et harceler les vaincus.

 Une panique, la seconde nuit après la bataille, dans le camp sous Catanzaro, prouve suffisamment le désarroi : “Vers minuit, rapporte un officier des Suisses, nous dormions profondément, lorsque tout coup un cri effroyable s’éleva de tout coté: les brigands! Les Anglais! Et une terreur panique se répandit dans toute l’armée. Chacun s’éveilla en sursaut, sans savoir où courir. Comme la chaleur était extrême, la plupart avaient retiré leurs vêtements et ce fut terrible de voir les Polonais se jeter sur les armes des Français, les Français sur les nôtres et nos soldats à droite et à gauche sur celles qu’ils purent trouver. On se tirait les uns sur les autres sans se connaître. Tous criaient: nous sommes perdus, et tout le monde s’enfuit de la hauteur vers la mer sans savoir pourquoi. Ce tumulte dura environ un quart d’heure…”. Il y aurait eu quelques morts et nombre de blessés».

(Estratti da: Jacques Rambaud, Naples sous Joseph Bonaparte, Librairie Plon, Paris, 1914, pp. 79, 81)

Magali Lucchini

Strategie belliche e diplomatiche della Gran Bretagna

Nell’ambito del lungo conflitto anglo–francese, la battaglia di Maida rappresentò un evento significativo nella strategia politico–militare, non solo per i riflessi nel contesto territoriale regionale, ma anche e soprattutto nel quadro più generale del Mediterraneo e dell’Europa per i successivi tentativi di Inghilterra e Francia di ritrovare nuovi equilibri.

Da una parte, infatti, il successo dell’armata britannica funzionò, a livello regionale, da incoraggiamento per la rivolta calabrese, che assunse la forma di un brigantaggio più violento e agguerrito, tale da imporre un’attenzione militare più dispendiosa e difficile, con impiego di uomini e ingenti mezzi, dall’altra funzionò come cassa di risonanza internazionale di un territorio – fino a quel momento soprattutto vissuto come periferia del regno – soltanto sfiorato, nei secoli precedenti, dagli eventi politici ed economici più rilevanti. Inoltre, esso segnò il tentativo di trovare, tra le due nazioni in guerra, la via della pace e nuove strategie politiche ed economiche.

A livello regionale, la stampa e gli intellettuali stranieri iniziarono ad occuparsi con descrizioni più minuziose, partecipate e comunicative, del paesaggio e delle condizioni sociali delle popolazioni locali, dedicando pagine importanti. Anche le opere d’architettura e le infrastrutture locali si animano di una presenza nuova in rivoli di trasmissione di esperienze illuministe: la cosiddetta Via Regia, che attraversa il territorio di Maida, assurge a luogo principale di transito di truppe, corrieri, uomini di scienza e di letteratura, che lasciano tracce indelebili della loro presenza e l’alone del loro sapere. A sottolinearne l’importanza europea, questo itinerario viene riportato sulle cartografie riguardanti l’intera penisola e, in particolare, ne l’Itinéraire d’Italie ou description des voyages par les routes les plus fréquentées et des principales villes d’Italie, di Pierre e Joseph Vallardi del 1828 e sulla Nuovissima guida dei viaggiatori in Italia di Epimaco e Pasquale Artaria del 1834.

L’intitolazione di un’importante via di Londra, Maida Vale, è la testimonianza più citata e non rappresenta che un aspetto dei riflessi di lunga durata di una battaglia che è anche il preludio della violenta reazione francese, con condanne sommarie, esecuzioni capitali nelle strade e nelle piazze, nonché azioni dimostrative di inaudita ferocia. Tra i brigands – termine con cui i francesi accumunavano sbrigativamente delinquenti comuni e coloro i quali si opponevano alla loro idea di libertà e di giustizia –, venivano compresi gli insorti, che, per non essere passati per le armi, furono costretti ad adottare gli stessi metodi che venivano usati contro di loro. Sono ben documentati i risultati delle inchieste del 1810 condotte da parte francese, generalizzanti e con l’esclusione di qualsivoglia eccezione: «Gli abitanti sono barbari, e sanguinarj, inclinati alla rapina, al brigantaggio, ed alla insubordinazione». E l’esito, favorevole agli inglesi della battaglia di Maida, ha svolto – nel bene e nel male – un ruolo importante, tanto che, per qualche anno ancora, dopo il 1806, molti insorti si illusero di poter respingere le armate straniere che con la forza e il terrore avevano occupato il regno. Del resto le garanzie di protezione da parte del generale inglese John Stuart, in seguito all’esito della battaglia, avevano avuto notevole ripercussione in tutta la Calabria. Buona parte della regione reagiva e i ribelli calabresi, già esortati alla rivolta dall’appello inglese, si dirigevano verso Napoli, convinti che la loro marcia verso la capitale poteva essere protetta da forze inglesi che tenevano sotto il controllo la costa tirrenica.

Ma gli inglesi, che avevano sostenuto la rivolta delle popolazioni calabresi ed armato i ribelli, rimarranno estranei al fermento che agitava il regno dopo la rotta subita a Maida dai francesi e l’appello alla rivolta del generale inglese. Le disposizioni impartite al comando inglese in Calabria erano perentorie: rinunziare a fare leva sulla vittoria. Charles James Fox, che dopo la morte del ministro William Pitt il Giovane, assunse la direzione deal politica estera inglese, mirava, infatti, ad un’intesa con Napoleone. La presenza inglese nel Regno di Napoli avrebbe ostacolato le trattative già iniziate, per cui il generale Stuart, attenendosi alle direttive centrali, abbandonò gli insorti e si ritirò con tutto il potenziale bellico nelle basi siciliane. Sicché, abbandonati da chi li aveva spinti alla ribellione e all’azione, coloro che avevano creduto nelle promesse degli inglesi si trovarono improvvisamente, a seguito della politica di avvicinamento alla Francia, a combattere da soli contro un nemico senza scrupoli. E i francesi consapevoli che la forza militare e il terrore fossero i soli strumenti necessari per mantenere sotto controllo la regione, contribuirono a segnare, in contraddizione con le coeve importanti riforme amministrative locali, i destini sociali regionali.

Giovanni Iuffrida

Nicastro antifrancese

La battaglia di Maida rappresenta senz’altro uno degli eventi più importanti tra quelli accaduti nella nostra piana, che in qualsiasi epoca ha sempre coperto un ruolo importante nella storia regionale.

All’alba del primo luglio 1806, una piccola flotta britannica raggiunse il Golfo di Sant’Eufemia e sbarcò un corpo di spedizione in corrispondenza del Bastione dei Cavalieri di Malta.

Nei due giorni successivi gli inglesi ebbero tutto il tempo per consolidare le loro posizioni nella marina di Sant’Eufemia e il Bastione di Malta, scelto come centro delle operazioni, venne circondato «da una trincea semicircolare, rinforzata con sacchi a terra, che appoggiava le estremità al mare». La flotta, che stazionava non lontano dalla spiaggia, rappresentava una buona copertura in caso di un improvviso attacco nemico.

Il proposito era quello di infliggere eventuali perdite e sollevare la popolazione locale, cui, infatti, il comandante inglese Stuart rivolse un proclama che incitava alla rivolta. L’appello fu accolto con entusiasmo dalla maggior parte della popolazione di Nicastro, che durante gli avvenimenti del 1799 era stata ostile alla repubblica, manifestando il suo attaccamento alla corona borbonica.

Nicastro, probabilmente nella stessa giornata del primo luglio, fu protagonista di un tragico avvenimento. Appena si fu allontanata la piccola guarnigione di soldati polacchi di stanza in città, alcuni scalmanati assalirono l’ospedale civico, trucidarono tutti i soldati francesi in esso ricoverati e si impossessarono delle loro armi. Vano risultò l’intervento del barone D. Domenico Statti volto a calmare gli animi.

La sera del 3 luglio i due schieramenti erano già l’uno di fronte all’altro. Osservando le «luminerie» di Nicastro, il generale francese Reynier, certamente per vendicare l’eccidio di qualche giorno prima, avrebbe esclamato: «Dimani batteremo gl’Inglesi, e dopo dimani brugeremo Nicastro».

Il giorno dello scontro, 4 luglio 1806, dai balconi, dalle finestre, dai tetti delle proprie case la popolazione nicastrese tentava di seguire le fasi della battaglia, non tanto per semplice curiosità quanto per la grande trepidazione da cui era assalita: la temibile minaccia del Reyner, infatti, non aveva tardato a raggiungere i nicastresi grazie agli amici di Maida.

Dalla direzione del fumo e dal rumore delle artiglierie la gente cercava di capire quale esercito prevalesse sull’altro quella fatidica mattina. Temendo la vendetta francese, molti si tenevano pronti alla fuga. Nel frattempo venivano allontanati il più possibile dalla città le donne, i bambini e gli infermi e si cercava di mettere al sicuro quanto si possedeva di prezioso.

Ripartiti gli inglesi e ritornati a Nicastro i francesi, questi «per solo esempio» – scrive lo storico nicastrese Maruca – «fucilarono un giovane imprudente dell’età di quindici anni… il quale si era fatto vedere in piazza con armi prese ai francesi».

Le fasi dei combattimenti sono descritte in una cartina topografica preziosa perché contemporanea all’avvenimento. Fu pubblicata dallo Stuart subito dopo la battaglia: l’originale si conserva a Napoli, nell’Archivio Borbone. L’autore manifesta una buona conoscenza dei luoghi, che sono indicati in modo particolareggiato e realistico. Un’analisi attenta di questo documento e una comparazione con una carta topografica dei giorni nostri può aiutarci a individuare con una sufficiente approssimazione il campo di battaglia che, si tenga conto, i nicastresi riuscivano a vedere in prospettiva dalle loro case. L’individuazione dell’autentico teatro dello scontro è forse possibile, ma richiede una ricerca sistematica quanto fortunata, con il ritrovamento di indizi certi sul terreno indagato.

Lucio Leone

La “democrazia” e le baionette

Erano “cafoni”, “selvaggi”, “canaglie”: tutti li volevano però dalla loro parte, gli insorti calabresi del 1806. Sulla loro testa si svolgevano gli avvenimenti della “storia grande”, si intrecciavano i desideri di rivalsa dei Borboni fuggiti da Napoli a Palermo, le ciniche strategie inglesi, la “grandeur” napoleonica tesa alla conquista della Sicilia.

Nei mari attorno alla Calabria, nel Mediterraneo, si dipanavano i disegni egemonici dell’Inghilterra imperialista, della Francia imperiale e dell’imperatore russo; scontri tra grandi potenze che annodavano la penisola calabrese alle “piccole” isole maltesi e ioniche, alle grandi isole siciliana e sarda, alle coste adriatiche e a quelle tirreniche. Era il fianco sud della grande partita europea, fra Napoleone e le coalizioni che di volta in volta si opponevano al suo prorompente primato: la Calabria è solo un frammento in questo enorme scacchiere. Ma ha una sua particolarità.

Per la prima volta si opponevano a Napoleone non grandi potenze e scettri e corone, ma “miserabili” di una regione rustica. «Questa è una guerra della povera gente», scriveva al tempo il generale inglese Stuart; a maggior ragione quindi non andava incentivata, né sostenuta, ma, se possibile, solo strumentalizzata. Questo è il ragionamento politico anglo–borbonico che tiene dietro all’osservazione di Stuart e questo sembra essere il quadro della battaglia di Maida: scontro fra “regolari”, con le divise e i comandanti. Gli appelli alla popolazione sembrano esser funzionali ad una strategia propagandistica, che d’altronde fa a sua volta parte integrante della guerra nuova che si va combattendo per le contrade d’Europa. Ma i proclami dell’una e dell’altra parte non sono destinati alla maggioranza della popolazione, anche per il puro dato materiale dell’analfabetismo di massa. Quegli editti e quei proclami, che oggi sono diligentemente conservati in archivi e biblioteche, erano diretti alle élites della regione; la parte popolare agiva con altre modalità di comunicazione e secondo altri schemi bellici, che non erano quelli classici.

Quella che in Spagna sarà chiamata la “guerrilla”, era già guerriglia in Calabria, “piccola” guerra di irregolari, di banditi e di briganti (secondo la “classica” iconografia dettata dai primi viaggiatori stranieri nella regione destinata a reiterarsi nell’Ottocento), di cafoni e di selvaggi. Questi “strani” calabresi reagivano a chi aveva sostituito i vecchi Borboni dicendo di portare libertà, fraternità e uguaglianza, ma sulla punta delle baionette. Bizzarra vicenda quella del rapporto fra i Francesi e i Calabresi, con i primi che affermano la modernità dei principi rivoluzionari e la possibilità di riscatto popolare e i secondi che ne contestano modalità e imposizioni.

La vicenda sarà destinata a ripetersi per altre parti d’Europa e addirittura – su altri scenari mondiali – fino ai giorni nostri.

Giuseppe Restifo

“Guerra civile” o “resistenza”?

Storia dal basso: questo, e non da ora ma dal tempo dello storico inglese Edward Thompson, sembra essere il percorso per trarsi fuori dall’histoire–bataille, dalla semplice storia delle battaglie, fatta di condottieri e statisti, di sovrani e imperatori. Allora, proprio prendendo spunto dalla battaglia di Maida, tanti altri interrogativi si possono porre, che riguardano non l’“alto”, ma il “basso”, non solo i generali con le medaglie, ma anche i soldati semplici e, ancor di più, quelli che non vestivano nessuna divisa ma che pure, pian piano, assumiamo abbiano fatto anche loro “la storia”. Non sappiamo se l’espressione «la guerra civile calabrese» sia abbastanza esplicativa sotto questo profilo, perché il periodo sembra piuttosto mostrare una “resistenza” di calabresi a non–calabresi, ma egualmente si può prendere in carico l’impegno di provare a fare storia dal basso.

La vicenda calabrese peraltro è comparabile con altra vicenda, quella di Malta, che la precede di otto anni: la rivolta dei contadini, che si protrae nell’isola mediterranea dal 1798 al 1800. Anche in quel caso la nuova storiografia ha dovuto “combattere” con l’histoire–bataille, con l’esaltazione del genio napoleonico, con la narrazione della grandezza della marineria inglese, con il triste racconto del declino del Sacro Ordine dei Cavalieri. Storie di persone di rango, di Nelson e della Francia, che si avviava ad essere imperiale, dello zar e del Pontefice, che doveva procurare nuove protezioni ai Cavalieri di S. Giovanni: l’umile contadino maltese – così come capiterà agli umili insorgenti calabresi – quasi non esiste in quella tradizionalissima storiografia.

Quando le manifestazioni antifrancesi vengono prese in considerazione, infine, si appiccica loro sempre l’etichetta della “ribellione spontanea”, del moto per offesa alla religione o alle donne, quasi seguendo da vicino il cliché dei Vespri siciliani. Soltanto da poco tempo ci si comincia a chiedere se dietro quell’apparente “ingenua spontaneità” ci sono forme organizzative, caratteri e aspetti di sociabilità urbana o rurale. La domanda è complessa, perché di sociabilità si è cominciato a parlare con Agulhon in Francia qualche decennio fa, ma in Italia quegli spunti si sono tradotti in ricerche sui salotti ottocenteschi e sulle prime forme “partitiche”; si è andati in avanti nel tempo, e non indietro, verso l’ancien régime.

La battaglia di Maida del 1806 e tutto l’intorno dell’insorgenza calabrese ci interpellano e ci chiamano a nuove ricerche sulla storia sociale della regione. A fermarsi alla storia militare soltanto, peraltro, si corre il rischio di una forte attenuazione del significato della battaglia stessa: lo dimostra la discussione a proposito del libro di Frederick C. Schneid, il quale insiste nell’affermare che l’intero conflitto in Calabria non sarebbe altro che una “nota a pie’ di pagina” nella larga tessitura delle guerre napoleoniche.

 Carmelina Gugliuzzo

I calabresi in Russia e Germania nel 1812 e nel 1813[2]

Nel 1807 Napoleone scriveva al fratello Giuseppe «Non vi entri in capo di formarvi un esercito napoletano, vi abbandonerebbe al primo pericolo, vi tradirebbe per un altro padrone. Fate tre o quattro reggimenti e mandatemeli, io con la guerra darò loro disciplina coraggio e sentimento d’onore». A sfatare questa sua opinione ci pensarono, nella notte del 17 novembre 1812, i veliti e le guardie d’onore agli ordini del generale calabrese Florestano Pepe, che scortarono la sua slitta mentre abbandonava i brandelli dell’armata di Russia. La scorta per non venir meno al regolamento indossò la grande uniforme, senza alcuna altra protezione dal freddo; a Vilnius alla fine di questa tragica prova di disciplina giunsero soltanto 30 uomini dei 300 che erano partiti. Questo distaccamento faceva parte della divisione giunta a Danzica in ottobre, comandata dal generale D’Estrées, formata da due brigate agli ordini dei marescialli Rossarol e D’Ambrosio e composte dal 5°, 6° e 7° di linea, due compagnie di marinai, due battaglioni di veliti a piedi, due squadroni di veliti a cavallo, tre squadroni di guardie d’onore ed una compagnia d’artiglieria per un totale di 8.107 uomini e 1.097 cavalli.

Tra i veliti si trovava un mio antenato, Gian Carlo Avati, di lui si tramanda che morì a Koningsberg e che fu decorato, in effetti accanto all’atto di nascita del registro parrocchiale ho trovato l’annotazione “velito”. Ma molti altri furono i calabresi che parteciparono alla campagna nel nord Europa, alcuni ottennero anche la Legion d’onore: come il tenente Scipione Sartiani da Reggio, ferito il 21 maggio 1813, alla battaglia di Wurschen, e morto il 31; il tenente dei granatieri Enrico Licastro da Delianuova, ferito il 30 agosto del 1813, alla battaglia di Greiffemberg, nuovamente ferito il 18 ottobre alla battaglia di Leipzig e morto il successivo 1 dicembre; il sergente maggiore Francesco Pepe di Cinquefrondi ed il capitano Belsito da Pizzo distintisi nella battaglia di Bautzen che costò ai napoletani del 4° leggero, sopraggiunto nel frattempo, 500 uomini e 15 ufficiali; nello stesso combattimento fu ferito gravemente il generale calabrese D’Ambrosio e si distinsero i capitani Camillo Scioti e Michele Scrugli, mentre tra gli effettivi del 5° di linea risulta il capobatteria Filippo Guarasci. All’assedio di Danzica parteciparono oltre 3.200 napoletani, l’assedio iniziò il 22 gennaio 1813 e durò per 11 mesi. Si distinse il sottotenente Luigi Cefaly da Cortale, che il 24 marzo fermò un contrattacco del nemico. Di lui il D’Estrées scrisse «Cet officier a montré le courage et le sang froid qu’exigeait une pareille circonstance». Il 3 settembre si fecero onore il tenente Francesco Calcaterra da Dasà ed il sergente Sinopoli di chiare origini calabresi. Ma gli assediati decimati dal tifo petecchiale e dal freddo, persa ogni speranza di aiuti da Napoleone, accettarono la resa ed il 2 gennaio lasciarono la città. Murat nel frattempo aveva cambiato alleanza e quindi ai 1600 superstiti napoletani fu permesso di raggiungere Napoli dove arrivarono il 7 agosto accolti dal Re e dalla cittadinanza. Con questi uomini Murat volle formare il 12° reggimento nei ranghi del quale troviamo il tenente Calcaterra, il tenente Francesco Scalese da Placanica ed i sottotenenti Cefaly e Nicola Marzano da Monteleone.

Per i limiti imposti non mi è possibile indicare altri combattenti i cui cognomi sono di stretta assonanza calabrese e per i quali ho in corso ulteriori indagini. Comunque, ritengo opportuno precisare che questa mia ricerca sarà dedicata alla memoria del velite Giancarlo Avati e di tutti i suoi coetanei che non fecero più ritorno in Calabria, autentici protagonisti della storia, a cui nessuno ancora ha reso onore.

Roberto Avati

«Nessuno ha imparato nulla da Maida»[3]

Fu questa l’esclamazione dell’Imperatore francese nell’apprendere la sconfitta di Reynier a Busaco dopo il suo attacco con 14 colonne alle forze di Wellington, ben ricordando il grave errore commesso dal generale francese alcuni anni prima, a Maida, nell’ordinare l’attacco nel medesimo assetto tattico. Infatti, a rendere ancor più interessanti i contorni di questa importante battaglia, ad oltre un secolo dalle tesi proposte dal grande storico inglese Sir Charles Oman, che si pronunciò a favore dell’attacco dei francesi in colonna, tesi accettate e condivise dalla storiografia ufficiale mondiale, nell’ultimo ventennio, alcuni storici, due tra tutti, James R. Arnold e Richard Hopton, con loro saggi, lo hanno energicamente rimesso in discussione, tanto da innescare, fatalmente, un meccanismo di revisione storica. Se lo scontro iniziale di Maida, secondo le nuove tesi, fosse avvenuto con entrambi gli schieramenti in linea – Brigata leggera del Kempt, non più di 800 uomini disposti su due ranghi, contrapposta ai due battaglioni del 1° reggimento di fanteria leggera, 1600 uomini disposti su tre ranghi – pur tenendo conto che le file inglesi aprirono il fuoco da fermo e pur considerando che si trattava di truppe di eccellenza ben addestrate al tiro, non si potrebbe negare che anche il reggimento francese, in quanto di fanteria leggera, era di qualità e in più, in netta superiorità numerica. Partendo da queste inconfutabili premesse, come si possono giustificare le enormi differenze di perdite tra i due schieramenti? Tutto ciò non può che portare ad una sola conclusione: l’attacco iniziale effettuato dall’ala sinistra del Compere, avvenne con i battaglioni disposti in colonne pesanti di divisione, perché solo tale assetto può giustificare perdite nel rapporto di 1 a 14. Infatti, le colonne, rispetto alla linea, presentavano un duplice svantaggio: subivano maggior danno dal fuoco di artiglieria e sviluppavano un minor volume di fuoco di fucileria. La verità storica è che i francesi, nelle loro battaglie, muovevano contro il nemico arditamente in colonna. Ma a Maida, per la prima volta, non riuscirono nel loro intento perché gli inglesi, loro avversari, non si lasciarono intimidire e, forti del loro addestramento, della loro disciplina e della loro tempra, aspettarono gli assalti a piè fermo schierati in due righe in assoluta immobilità e impressionante silenzio emirando con calma e freddezza, all’unisono aprirono il fuoco da breve distanza, scaricando due micidiali e precise salve di fucileria da meno di 100 e a 20 metri. A questa seconda tempesta di fuoco, i sopravvissuti, letteralmente in preda al panico, gettarono i fucili e fuggirono. La vittoria premia chi distrugge nel nemico la determinazione a resistere e il fuoco è insostituibile nella distruzione morale. La conseguente rotta non può essere fermata da nessuno: non esiste più Patria o Imperatore che tenga!

Certo, il Reynier, poteva meglio utilizzare e con più convinzione i suoi volteggiatori, tra l’altro presenti in gran numero (cinque compagnie considerando la sola Brigata Compere), nella schermaglia iniziale avvenuta lungo il greto del Lamato, prologo alla battaglia vera e propria. Se avesse impegnato più compagnie rispetto alle due che utilizzò, oltre a poter insidiare con più incisività il fianco destro scoperto della Brigata leggera, sicuramente avrebbe impedito il rientro in formazione di gran parte delle forze che il Kempt aveva saggiamente distaccato per il contrasto, riducendo così di un terzo il potenziale di fuoco sviluppabile dalla Brigata leggera nell’imminente scontro con le colonne del 1° leggero. Ma, assieme ai tanti errori commessi quel giorno, il Reynier commise anche questo, con il risultato che perse la battaglia in un quarto d’ora.

Salvatore Moschella

La linea vincente[4]

Obiettivo di questo mio breve intervento è di focalizzare l’attenzione su di un aspetto particolare della battaglia di Maida, quello relativo al felice esito della tattica posta in campo dal comando militare inglese ed agli errori dell’avversario.

La durata dello scontro fu eccezionalmente breve (R. Hopton arriva a misurare la durata in quindici minuti), elevatissimo il numero di morti e feriti, enorme il divario dei caduti fra i due eserciti.

Pur tenendo conto dell’esito comune a tutte le battaglie, laddove i vinti soccombono e sono due volte vittime, il numero dei morti e dei feriti francesi è veramente elevato, specie in considerazione del fatto che del tutto esiguo è il numero dei borbonici e degli insorgenti (ammesso che questi ultimi abbiano combattuto e non se ne siano rimasti a guardare, come afferma lo Stuart).

I dati ufficiali inglesi parlano di 1.300 caduti francesi successivamente bruciati sul campo di battaglia, 510 feriti morti “nei nostri spedali” e di un numero considerevole di prigionieri polacchi e svizzeri cui fu concesso di arruolarsi nei corpi esteri nonché di altri prigionieri mandati in Francia ed in Malta. Le perdite inglesi: 41 morti e 261 feriti.

Quale evento può aver condizionato le sorti della battaglia da farla durare pochi minuti quando sul campo si fronteggiavano 6.000 inglesi contro 7.000 uomini dell’invincibile Grande Armée?

Non fu un attacco di sorpresa. Lo Stuart, sbarcato sera del 30 giugno sulla spiaggia di Sant’Eufemia ed inoltratosi nella pianura per ispezionare i luoghi, si scontrò con un distaccamento di circa 400 francesi e polacchi. Lo sbarco non prese quindi alla sprovvista i francesi che sera del 3 luglio se ne stavano sopra una collina boscosa verso Maida.

Il successo si deve a scelte tattiche: la linea contro la colonna di sfondamento francese ed alla ferrea disciplina che allenava i soldati inglesi a sparare sul nemico a distanza ravvicinata. Da parte francese mancò un qualsiasi ostacolo allo sbarco e nocquero gli ordini del generale Reynier di abbandonare la posizione favorevole sulla collina e di andare alla baionetta: «Le général renouvela en même temps l’ordre exprès de courir sur l’ennemi à la baïonnette sans tirer un coup de fusil».

Gli inglesi, disposti in linea, aprirono un fuoco micidiale contro le colonne francesi creando varchi tanto profondi nelle colonne da incutere il terrore e quindi una disordinata fuga.

Sulla precisione dei numeri i pareri sono contrastanti ma l’enormità del divario resta indubitabile. Attendere il nemico impavidamente fino alla distanza di pochi metri non solo consentì una micidiale precisione di fuoco ma, nel caso in specie, un duplice effetto psicologico: quello di confermare al nemico che anche gli inglesi erano per lo scontro alla baionetta e, successivamente, quello di seminare il panico.

La positiva esperienza di Maida portò Wellington ad utilizzare abbondantemente la tattica delle scariche di fucileria con i soldati schierati in linea durante la guerra d’indipendenza spagnola.

Quattro anni dopo Maida, a Busaco, sugli omonimi monti del Portogallo centrale, le forze anglo–lusitane comandate dal duca di Wellington sconfissero le forze di Massena delle quali Reynier comandava il II corpo d’armata. Anche qui linea contro colonna. Le perdite francesi, tra morti e feriti, furono di 4.500 uomini contro i 1.250 inglesi.

 Leopardi Greto Ciriaco

[1] N.d.C. IX anno del calendario rivoluzionario francese che inizia nel 1793.

[2] Questo contributo non era stato incluso nella brochure del 2005 in quanto giunto oltre il tempo limite.

[3] Questo contributo non era stato incluso nella brochure del 2005 in quanto pervenuto oltre il tempo limite.

[4] Questo contributo non era stato incluso nella brochure del 2005 in quanto pervenuto oltre il tempo limite.

premio 2005 - 1

premio 2005 - 2